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VOGLIONO ACQUA, LUCE E GAS: SOLDI A PALATE, E IL PD OBBEDIRÀ. VIA L’ARTICOLO V

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Acqua, luce, gas. Perché il Pd vuole privatizzare i servizi pubblici fondamentali? Perché gliel’hanno ordinato gli speculatori: la finanza ci guadagna di più e non rischia niente.

Ecco il motivo dell’invocata modifica del Titolo V della Costituzione, che tuttora affida agli enti locali il controllo delle reti di distribuzione.

Tutto iniziò con Franco Bassanini, attuale presidente della Cdp, la Cassa Depositi e Prestiti. Già socialista, poi transitato al Pds: fu lui, ricorda Paolo Barnard, a sferrare il primo storico attacco alla gestione pubblica dei servizi degli enti locali, le “utility”. Risultato: la legge 267 del 2000, figlia del lavoro svolto negli anni ‘90 da questo tecnocrate europeista.

Bassanini «obbediva al già infame trattato Gats dell’Organizzazione Mondiale del Commercio di Ginevra», cioè il trattato del Wto che «mirava a mettere nelle mani degli speculatori internazionali (cioè privatizzare) i tuoi servizi essenziali, come scuola, sanità, assistenza sociale, cimiteri, anagrafe, acqua, luce, gas».

Poi il Gats «si è impantanato», ma niente paura: oggi rientra dalla finestra col nome di Tisa ed è collegato al Ttip, il Trattato Transatlantico sul commercio.

 

Dopo le “limature” di Prodi e D’Alema alla fine degli anni ’90, continua Barnard, oggi Renzi «vuole portare la stoccata finale alla privatizzazione dei servizi enti locali».

Domanda: «Ma perché tutta ’sta furia del Pd (coccige di Wall Street) a fare ’ste “riforme”?».

La risposta è persino banale: «Gli investitori sanno da tempo che investire in un servizio “utility” rende molto di più e si rischia molto di meno che investire nelle banche». Per la precisione, «significa che uno speculatore/investitore americano o russo o cinese guadagna molto di più, e rischia 9 volte di meno!, a investire nell’acqua o nel gas di un Comune che li privatizza piuttosto che a investire in Unicredit o Intesa o Bank of America o Bnp Paribas o Deutsche Bank».

Non ci credete? «Non credete che mettere 1 milione di dollari sull’acqua sia mooolto meglio che metterli nelle super-potenti banche?». Il modello, continua Barnard, viene ovviamente dall’America: «Le “utility”, cioè proprio i servizi locali di acqua, luce e gas, hanno garantito agli investitori americani degli utili dall’80% al 50% di media!».

 

Rendimenti stellari, se paragonati ai settori finanziari classici, le mega-banche: ai suoi investitori, Jp Morgan ha garantito il 30%, mentre Bank of America «un miserabile 4%», e un colosso come Citigoup «un’agonia dello 0,9%».

Senza contare i debiti, naturalmente: «Imparate che il rapporto fra i debiti di una banca e il suo capitale (azioni) si chiama “leverage ratio”. Più alto è il debito e più basso è il capitale, più c’è “leverage” (rischio).

Gli investitori hanno sempre guardato a questo rapporto debiti-capitale quando hanno messo soldi in banche o in “utility”. Oggi – aggiunge Barnard – la realtà che gli Stati Uniti hanno insegnato all’Europa è che chi investe in banca si becca in media un “leverage” di 1 di capitale contro 10 di debiti, mentre, e qui sta il punto dei punti, chi investe in “utilities” si becca un rischio 9 volte inferiore, oltre che molti più utili».

 

Il nostro problema? «Il rapido Renzi scondinzola», quindi «noi cittadini siamo fottuti», visto che «qui si chiude il cerchio maledetto: la finanza ordina, il Pd obbedisce».

 

Disposizione chiara: via il Titolo V, per poter privatizzare le “utility”.

Coi più sentiti ringraziamenti, da parte degli speculatori, agli italiani che hanno votato Pd.

 

 

Fonte: visto su Libre del 27 gennaio 2015

Link: http://www.libreidee.org/2015/01/vogliono-acqua-luce-e-gas-soldi-a-palate-e-il-pd-obbedira/

 


ADDIO LUCIANO BRUNELLI

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Luciano Brunelli e uno dei suoi cori

 

 

BASSANOLutto nel mondo della cultura per la scomparsa, di LUCIANO BRUNELLI, 68 anni, che si è spento all’ospedale San Bassiano dove era ricoverato da alcuni giorni.

 

Brunelli, conosciuto soprattutto nell’ambiente musicale bassanese, da tempo soffriva di problemi di cuore. Nato a Soave (Verona) nel 1946, ha vissuto la sua giovinezza a Rosà, dove ha iniziato i primi passi nella musica suonando l’organo del Duomo, per poi trasferirsi definitivamente nella città del Grappa, dopo una breve parentesi a Padova. Laureato in matematica, la sua è stata una vita interamente dedicata alla famiglia e alla musica, accanto alla sua professione di programmatore informatico.

 

Luciano andava molto fiero dell’essere autodidatta nel campo artistico, dove si era perfezionato nella composizione di canzoni specialmente in lingua veneta, lui che era un “venetista” convinto e della prima ora. In oltre quarant’anni di impegno musicale ha diretto diversi cori di musica sacra nel Bassanese, lasciando sempre la sua “impronta” per le innovazioni che sapeva portare.

 

Ha composto tantissimi brani, alcuni dei quali gli sono valsi importanti riconoscimenti. Forse sono due le canzoni che amava di più. La prima è “Perasto 1797” che nel 1999 ha vinto il “Premio Leone d’Oro” al concorso canzoni venete durante il carnevale di Venezia . Il testo è tratto dal discorso del Capitano Viscovich in occasione dell’ ultimo ammainabandiera del vessillo di S. Marco, nella città di Perasto (attualmente in Montenegro). La base musicale é costituita dall’ “Adagio dal Concerto in re minore per oboe ed archi” di Alessandro Marcello. La linea melodica del canto é invece di Luciano Brunelli.

 

La seconda è quella che lui ha dedicato a tutti i veneti, quasi come un inno, dal titolo “Na bandiera, na lengua, na storia”; in questo tributo ha riarrangiato la base musicale della “Juditha triumphans” di Vivaldi.

 

La sua ultima uscita pubblica è stata nell’estate scorsa a Palazzo Roberti di Bassano in occasione di una serata dedicata alla sua fertile carriera musicale con diversi artisti che hanno interpretato le sue canzoni. Lascia nel dolore la moglie Silvana, i figli Michele, Leonardo e Ilaria (consigliera comunale di Bassano nella passata amministrazione) e le due amate nipotine Elianora e Maria Leon. Il funerale si svolge venerdì 30 gennaio alle 15,30 nella chiesa di San Francesco, in centro a Bassano.

 

 

Fonte: da il Gazzettino di Vicenza Bassano del 28 gennaio 2014

Link: http://www.gazzettino.it/VICENZA-BASSANO/BASSANO/bassano_luciano_brunelli_musicista_venetista/notizie/1148668.shtml

 

 

MINISTRO DELLA SANITÀ: CHI NON PUÒ PAGARSI LE CURE VA UCCISO.

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Rimante Salaseviciute, 

 

 

QUESTA È L’EUROPA

 

I poveri? Crepino pure: curarli costa troppo. Ci vorrebbe l’eutanasia, per sopprimere chi non può permettersi cure sanitarie private.

La frase non è di Hilter, ma della ministra lituana della salute, Rimante Salaseviciute, secondo cui il denaro ovviamente conta molto più della vita umana.

Se i paesi baltici si segnalano periodicamente per gaffe imbarazzanti – come l’arresto di Giulietto Chiesa in Estonia solo per impedirgli di esprimersi sulla relazione tra Europa e Russia – l’uscita della Salaseviciute è perfettamente consonante con il trattamento che la Germania, tramite la Troika Ue, ha imposto ai bambini greci, lasciati senza cibo sufficiente e senza assistenza medica.

Tragedie che in Italia diventano commedia, come lo spettacolo della gente che si rovescia in testa secchiate d’acqua, ufficialmente per aiutare la raccolta fondi contro la Sla. Scena che dovrebbe «suscitare pena e indignazione», protesta il blog “Il Simplicissimus”, visto che era una trovata «sostanzialmente per fare i fresconi e richiamare servizi televisivi». Tanto più che «dopo le secchiate, compresa quella di Renzi irresistibilmente attratto dalle stupidaggini come l’ago della bussola lo è dal nord, non arrivano soldi o ne arrivano pochini: in tutto l’Occidente finora non si è raccolto nemmeno ciò che serve a comprare un F-35».

 

Alla fine, continua il blog, si arriva a constatare che la ricerca su una malattia considerata rara non è sostenuta dai fondi pubblici, «il cui unico scopo è risparmiare per far contenta la finanza», quella tedesca, che impone all’Unione Europea la tortura della disciplina di bilancio, a sua volta prodotta dalla colossale mistificazione dell’euro, la non-moneta che gli Stati non possono utilizzare per le loro necessità. E addio solidarietà sociale, compreso il diritto alla salute: ormai anch’esso in via di estinzione, «nell’evanescente e terribile Europa delle banche». Mostruosa, dunque, ma anche drammaticamente coerente con il clima di questi anni, la sortita della lituana Salaseviciute, «personaggio tra i più progressisti della piccola repubblica baltica sulla quale sventola la bandiera delle 12 stelle». Dichiarazione rilasciata alla radio nazionale: «L’eutanasia è una buona soluzione per gli strati deboli della società, per i poveri che non hanno i mezzi per pagare le cure sanitarie». Per la ministra, inoltre, è impensabile che la Lituania sviluppi uno stato sociale dove la sanità e le cure siano accessibili a tutti.

 

«Evidentemente – scrive “Il Simplicissimus” – gli accorati appelli della Lagarde sull’allarmante aumento dell’età media e sulla incredibile tracotanza dei ceti popolari che pretenderebbero di usufruire dei progressi delle conoscenze mediche, fanno scuola». Vengono i brividi, aggiunge il blog, pensando che la Salaseviciute è stata promossa ministro della sanità per sostituire il compagno di partito e di governo Vytenis Andriukaitis, chiamato a far parte della nuova Commissione Europea guidata dall’impresentabile Jean-Claude Juncker, da più di trent’anni al servizio di multinazionali, élite finanziaria, servizi segreti e grandi evasori mondiali.

Si comincia con le secchiate d’acqua in testa e poi si arriva alle pratiche di sterminio sociale auspicate in Lituania? «Sono due facce della stessa medaglia», se cominci a tagliare deficit e posti letto negli ospedali. Morale: il pubblico non deve più garantire l’accesso alla sanità di tutti i cittadini. «Buffoni e canaglie – conclude “Il Simplicissius” – compaiono sullo stesso piano ideologico come le figure speculari su una carta da gioco: quella del baro che ci sta portando via la posta accumulata in tanti anni di lotte e di speranze».

 

 

Fonte: da Libre del 29 gennaio 2015

Link: http://www.libreidee.org/2015/01/ministro-della-sanita-chi-non-puo-pagarsi-le-cure-va-ucciso/

PROVERBI VENETI IN ORDINE ALFABETICO

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A

 

A ‘la Madona del Rosario el pitaro de passajo. (6/10)

A ‘la Madona i pitari ne sbandona.

A ‘la Madona le quaie ne sbandona.

A ‘la prima Madona le se smorza, a ‘la seconda le se inpiza. (15/8 – 8/9)

A ‘la Salute se veste le bele pute. (21/11)

A ‘sto mondo bisogna adatarese, inrabiarse o desperarse.

A ‘sto mondo ghe xe chi che la ghe piase cota e chi che la ghe piase crua.

A barca rota no ghe serve sèssola.

A caminare a stravento se fa senpre fadiga.

A canbiare munaro se canbia ladro.

A chi carne de testa e a chi de colo.

A chi che ga denaro forte, quando l’è vecio se augura la morte.

A chi che no ghe piase el vin , che Dio ghe toga anca l’aqua.

A chi che no vole far fadighe, el teren ghe produse ortighe.

A chi nasse scarognà ghe piove sol culo stando sentà.

A dieta el mal se chieta.

A dire busie ghe vole bona memoria.

A dire la verità ghe vole on cojon, a dire busie ghe vole on bricon.

A far credenza se perde l’aventore.

A far la carità no se va in miseria.

A fare a modo soo se scanpa dies’ani de pì.

Ai can magri ghe va drio le mosche.

A Jenaro tuti i veci va a ponaro.

A l’amo se ciapa el pesse, i òmani a l’intaresse.

A l’astuzia del munaro no gh’è mai nissun riparo.

A l’Ave Maria ogni òpara xe conpia.

A l’Imacolata se scumizia l’invernata.

A l’istà piove a contrà.

A l’osèlo ingordo ghe crepa el gosso.

A l’ostaria no vago, ma co ghe so’ ghe stago.

A la botega, vaghe; a la canpagna, staghe.

A la luna de Setenbre la ua e el figo pende.

A la vizilia de San Joani piove tuti i ani. (24/6)

A le prime aque de Agosto la tortora la va via.

A lavare la testa del moltom se consuma l’aqua e anca el saon.

A magnare el zervelo del pesse se deventa intelijente.

A magnare on spigo de ajo, se spuza come a magnarghene na resta.

A Marzo ogni mato va descalzo.

A Messa, tuti no pole stare tacà al prete.

A morire e a pagare se fa senpre tenpo.

A ogni culo el so cagare.

A ogni uno ghe piase la so spuzeta.

A on belo senpre ghe manca, a on bruto senpre ghe vanza.

A parlare se fa presto: pì difìzile xe el resto.

A pensar mal se fa pecà, ma se indovina senpre.

A poca oja no manca scuse.

A quatro a quatro se inpinisse el saco.

A quel che vien da sora no ghe xe riparo.

A robare poco se va in galera, a robare tanto se fa cariera.

A San Baldoin se fa el vin.

A San Bassan on fredo da can. (19/1)

A San Belin el jazo sol caìn. (12/10)

A San Benedeto la vegna su par el paleto.

A San Benedìo le ròndene torna indrio. (21/3)

A San Bernardin fiorisse el lin. (20/5)

A San Bonaventura el medare l’è finio in pianura. (15/7)

A San Bovo se ronpe el primo ovo. (2/1)

A San Clemente l’inverno mete el dente. (23/11)

A San Crispin se pesta el vin. (25/10)

A San Donato el fredo l’è fato. (7/8)

A San Firmin, sòmena el contadin. (11/10)

A San Francesco i tordi i va de furia. (4/10)

A San Gioachin el primo freschin. (20/8)

A San Gorgon passa la lòdola e ‘l lodolon. (9/9)

A San Gorgon xe finio el tenpo bon.

A San Luca el ton el va in zuca. (18/10)

A San Luca le lòdole se speluca. (18/10)

A San Martin casca le foje e se beve el bon vin.

A San Martin el mosto deventa vin.

A San Martin se calza el grande e anca el picenin. (11/11)

A San Martin se spina el bon vin.

A San Martin, castagne e vin.

A San Matìo el bel tenpo xe finio. (21/9)

A San Matìo el primo tordo xe mio.

A San Modesto el fredo vien col zesto. (12/1)

A San Nicòlo tira la neve sol colo. (6/12)

A San Pelegrin, poca paja e poco vin. (5/5)

A San Roco le nose le va in scroco. (16/8)

A San Roco le quaie le va de troto.

A San Roco le ròndene fà fagoto.

A San Saturnin la neve sol camin. (28/11)

A San Simon le lòdole a valon. (28/10)

A San Simon se cava la rava e ‘l ravanon. (28/10)

A San Tizian on fredo can. (16/1)

A San Valentin el giazo no tien gnanca pì on gardelin. (14/2)

A San Vio le zarese le ga el marìo.

A San Zen, somenza in sen. (12/4)

A Sant’Agnese el fredo passa le sfese. (21/1)

A Sant’Ana el rondon se slontana. (26/7)

A Sant’Ana le nose va in tana.

A Sant’Andrea el fredo el monta in carega. (30/11)

A Sant’Andrea se veste tuta la fameja.

A Sant’Antonio (Abate) on passo de demonio. (17/1).

A Sant’Antonio dala barba bianca o piova o neve no la manca.

A Sant’Erman le arte in man. (8/2)

A Sant’Isaco, el formento fora dal saco. (19/10)

A Sant’Ubaldo se fa vanti el caldo. (16/5)

A Sant’Urban el formento el fa el gran.

A Santa ‘Fema, se scumizia la vendema. (s.Eufemia, 16/9)

A Santa Catarina el fredo se rafina. (25/11)

A Santa Catarina el jazo so la pissina.

A Santa Catarina la neve se inchina.

A Santa Caterina se tira zo la scaldina. (25 /11)

A Santa Crose, pan e nose. (14/9)

A Santa Fiorenza xe oncora bona la somenza. (27/10)

A Santa Liberata freda l’invernata. (18/1)

A Santa Lucia la note pì longa che ghe sia. (13/12).

A Santa Madalena la nosa xe piena. (22/7)

A Santa Madalena piove apena.

A Santa Madalena se taja l’avena.

A Santa Pologna la tera perde la rogna. (9/2)

A Santa Toscana el riso el va in cana. (14/7)

A Santa Toscana i rondoni se slontana. (14/7)

A sentarse so do careghe el culo se sbrega.

A sete ani i xe putei, a setanta oncora quei.

A Setenbre se destaca tuto quel che pende.

A Setenbre, braghe de tela e moloni no i xe pì boni.

A Setenbre, chi xe esperto no viaja mai descuerto.

A somenare col vento se perde la somenza.

A tirarse massa indrio se finisse col culo in rio.

A tola e leto no se porta rispeto.

A tola no se vien veci.

A torghene e no metarghene el mucio cala.

A tusi e mati no se comanda.

A vìvare co la testa sol saco xe bon ogni macaco.

A voler ben a ‘na bela xe pecà, a ‘na bruta xe carità.

Agosto cola el pionbo.

Agosto conpisse, Setenbre madurisse.

Agosto madura, Setenbre vendema.

Agosto rinfresca el bosco.

Ai du passa la nuvola del Perdon. (2/8)

Ai Morti e ai Santi i corvi sbandona i monti e i vien a pascolare ai canpi.

Ai santi veci no se ghe inpiza candele.

Ai ultimi de Setenbre, i fringuei par la tesa.

Al busiaro no se ghe crede gnanca quando che’l dise la verità.

Al cao de là fa la pitona.

Al ciaro de luse ogni stronzo traluse.

Al ciaro de na candela no se stima né dona né tela.

Al dì d’i morti la neve xe ale porte. (2/11)

Al mese de Jenaro la gata va in gataro.

Al primo de Agosto l’ànara se mote a ‘rosto.

Al son de la canpana (schei) ogni dona se fa putana.

Al vento e ale done no se comanda.

Ala de capon, culo de castron e tete de massara xe na roba rara.

Ala dona no se dise né bruta, né vecia.

Ala Madona de Agosto rinfresca el bosco. (15/8).

Ala prima aqua de Agosto, pitoco te conosso.

Ala sera tuti buò, ala matina tute vache.

Ala vizilia de San Piero vien fora so mare. (29/6)

Alba rossa, o vento i joza.

Ale done, ai sassi e ai bissi, colpi ciari e fissi.

Ale làgreme de on erede xe mato chi che ghe crede.

Amare e no éssare amà, xe come forbirse el culo senza vere cagà.

Amarse, ma no buzararse.

Amore de soldà, oncuò qua, doman là.

Amore fa amore, cativeria fa cativeria

Amore, merda e zéndare le xe tre robe tèndare.

Amore senza barufa fà la mufa.

Amore, tosse e panza no se sconde.

Anca i cojuni magna el pan.

Anca l’ocio vole la so parte.

Anca la cossienza fa el calo

Anca na bruta sìmia pole fare on bel salto.

Ano bisesto, ano senza sesto.

Ano piovoso, ano de merda.

Aprile ga el fiore, Majo l’odore.

Aprile la spiga, Majo el late, Giugno el gran.

Aprile piovoso, ano frutuoso.

Aprile sparesin, Majo saresin.

Aprile tenperà e Majo suto, formento dapartuto.

Aprile, on’ora el pianze, on’ora el ride.

Aprile, tuti i dì on barile.

Aqua che core no porta odore.

Aqua de Agosto, miele e mosto.

Aqua de Aprile, fromento sol barile.

Aqua passà no masena pì.

Aqua setenbrina, velen par la cantina.

Aqua turbia no fa specio

Ara tanto e sòmena poco.

Aria de fessura porta ala sepoltura.

Aria setenbrina, fresca la sera fresca la matina.

Arte toa, nemigo too.

Articolo quinto: chi che ga i schei ga senpre vinto.

Assa che la mojère la comanda in casa: solo cussì la te struca e la te basa.

Avere debiti e no pagarli xe come no averghene.

A viajare se se descanta, ma chi che parte mona el torna indrio mona.

 

B

 

Bacalà a ‘la visentina, bon de sera e de matina.

Barbi e rane mai de Majo, parché i fa tristo passajo.

Barca fondà no ga bisogno de benedission.

Baso devoto no vole èssare visto.

Baso no fa buso, ma xe scala par andar suso.

Baso par forza no vale na scorza.

Basta na fontana a far dano a on’ostaria.

Beata che la sposa che la prima che la ga la sia na tosa.

Beati i ultimi se i primi ga creanza.

Beato l’Istà co tuti i pulzi e i zìmesi che’l ga.

Bela coa, trista cavala.

Bela in fassa, bruta in piaza.

Ben, bon e magari i jera tri che fabricava lunari.

Bianco e moro méname a casa.

Bieta e vin juta el segantin.

Bisogna avere oci anca sol culo.

Bisogna fare la spesa secondo l’entrata.

Bisogna inpizare na candela al demonio e una a Sant’Antonio.

Bisogna menare el dente conforme che uno se sente.

Bisogna tacare el musso dove che vole el paron.

Bivi el vin e lassa l’aqua al mulin.

Boca onta no la pole dire de no.

Boca sarà no ciapa moschini.

Bon come l’aqua de Lujo.

Bon fogo e bon vin scalda el camin.

Bon marcà sbrega la borsa.

Bon naso, fà bel’omo.

Bon vin, fola longa.

Bona bota bon vin, trista bota tristo vin.

Bondanza e roganza xe tuta na piatanza.

Bone parole e cativi fati ingana savi e mati.

Bonora al marcà e ala fiera, tardi ala guera.

Bota che canta la xe voda.

Bota piena, cèsa voda.

Botega de canton fà schei ogni cojon.

Bronza cuerta brusa la traversa.

Bruta de muso, larga de buso.

Buta via la roba tri dì dopo che la spuza.
C
Cadena tirà fà la pase in ca’.

Cafè de colo, ciocolata de culo.

Can che baja no mòrsega.

Can no magna can.

Canbiando paese se canbia fortuna.

Candelora, de l’inverno semo fora, ma se piove e tira vento de l’inverno semo drento.

Canpa, cavalo, che l’erba cresse.

Canpane a ore, calcun che more.

Canpanon a bonora, la xe na trista sagra.

Canpo pestà no produse erba.

Cao curto vendema longa.

Carestia prevista meza carestia.

Carità de man, bontà de core.

Carità par forza, fiore che spuza.

Carne che cresse no sta mai ferma.

Carne de vaca e legno de figaro par far bela ziera al’amigo caro.

Carne zòvane e pesse vecio.

Carnevale e Quarésema, par el pitoco xe la medesema.

Carta canta, vilan dorme.

Casa neta, dona regina.

Cativo inverno, cativo istà.

Cava erba e miti merda.

Caval bianco e bela mojèr dà senpre pensièr.

Caval, putana e persegar trent’ani no i pol durar.

Cavalo in prìstio no xe mai straco e no ga mai fame.

Cavalo vecio e servo cojon no inbroja el paron.

Cese e ospedai no i falisse mai.

Che Dio el ne varda dal seco tra le do Madone.

Che la piasa, che la tasa e che la staga in casa.

Chi ara fondo guadagna on mondo.

Chi beve prima dela minestra, vede el mèdego dala finestra.

Chi che bastona el so cavalo bastona la so scarsela.

Chi che dispreza conpra.

Chi che fa el conto prima de l’osto el lo fa do volte.

Chi che ga da vere ga da dare.

Chi che ga el mànego in man lo dòpara.

Chi che ga la rogna se la grata.

Chi che ga le scarpe rote el crede che tuti ghe le varda.

Chi che ga le zuche no ga i porzei.

Chi che ga na bela mojère no la xe tuta soa.

Chi che ga na vacheta ga na botegheta.

Chi che ga on mistièro in man da par tuto trova pan.

Chi ghe ga on zoco sol cortile, lo tegna pa ‘l mese de Aprile.

Chi che ga paura del diavolo no fà schei.

Chi che ga santoli ga buzolà.

Chi che ga schei ga senpre rason.

Chi che ga solo on porzelo lo ga belo, chi ga solo on tosato lo ga mato.

Chi che ghe fà la barba al musso perde l’aqua e anca el saon.

Chi che ghe n’a ghe ne spende.

Chi che ghe piase el vin no’l lo buta in aseo.

Chi che grata la rogna ai altri rinfresca la soa.

Chi che laòra de festa laòra par el diavolo.

Chi che laora ga na camisa, chi che no laora ghe ne ga do.

Chi che laora magna, chi che no laora magna e beve.

Chi che magna aloè vive i ani de Noè.

Chi che massa se inchina mostra el culo.

Chi che nasse tacà a on fosso spuza senpre da freschin.

Chi che no ga fame, o l’è malà o’l ga magnà.

Chi che no ga pan ga denti.

Chi che paga avanti el trato, servizio mal fato.

Chi che pianta de Aprile cava de Majo.

Chi che pissa contro vento se bagna la camisa.

Chi che ride de vènare pianze de domenega.

Chi che ronpe de vecio paga de novo.

Chi che se marida de carnevale slonga le ganbe e scurza le bale.

Chi che se marida e no sa l’uso, fa le ganbe fiape e longo ‘l muso.

Chi che se marida vecio sona de corno.

Chi che siòla ga pensieri.

Chi che va par i spini i xe quili descalzi.

Chi che varda i fati di’ altri i sui ghe va da malo.

Chi che varda in suso se inbalza.

Chi che varda la luna gnente suna.

Chi che vole justare le braghe co le còtole dela mojère le gavarà senpre rote.

Chi che xe al cuerto quando che piove el xe mato s’el se move.

Chi che xe ben nutrio no crede ala fame.

Chi che xe destinà par la forca se nega.

Chi che xe vizin ala cusina magna minestra calda.

Chi che zerca cavalo e fémena senza difeto, no’l gavarà mai cavalo in stala e fémena in leto.

Chi ciama Dio no xe contento, chi ciama el diavolo xe disperà, chi dise ahimè xe inamorà.

Chi co done va e mussi mena, i crede de rivare a disnare e no i riva gnanca a zena.

Chi cominzia ben el primo de l’ano sta ben tuto l’ano.

Chi dà ai pòvari inpresta a Dio.

Chi da galina nasse, da galina ruspa.

Chi dà via el fato soo prima che’l mora, el merita la morte co la mazola.

Chi davanti te fa le bone de drio te sbefa.

Chi davanti te leca de drio te sgrafa.

Chi desfa bosco e desfa pra se fà dano e no lo sa.

Chi dise dona dise dano.

Chi dise “ma” in culo lo ga.

Chi dise sposa dise spesa.

Chi dòpara loame no ga mai fame.

Chi fà i fati sui no se sporca le man.

Chi fa la festa no la gode.

Chi fa la pignata sa fare anca el manego.

Chi fà pì dela mama, ingana.

Chi fà scarpe porta zavate.

Chi fida nel loto no magna de coto.

Chi ga canpi canpa.

Chi ga del bon in casa porta ogni straza.

Chi ga el cao dala soa ga in culo i sbiri.

Chi ga fato le pignate pol anca rònparle.

Chi ga la caza in man minestra a so modo.

Chi ga na bela scarpa ga na bela zavata.

Chi ghe n’a in cuna no diga de nissuna.

Chi gira leca, chi sta a casa se seca.

Chi inpresta perde el mànego e anca la zesta.

Chi ladra, Dio ghe dona; chi no ladra, pioci e rogna.

Chi leze el cartelo no magna vedèlo.

Chi magna carpion no xe on babion.

Chi magna salata fà la vita beata.

Chi mistièro no sa botega sara.

Chi more el mondo assa, chi vive se la spassa.

Chi nasse de Lujo no speta comare.

Chi nasse mato no guarisse mai.

Chi no ga testa ga ganbe.

Chi no ghe piase galina col pien, merita pache opure velen.

Chi no laora no magna.

Chi no magna ga magnà.

Chi no more in cuna ghe ne inpara senpre calcuna

Chi no sa cossa che xe l’inferno, fassa el cogo d’istà e ‘l caretier d’inverno.

Chi no sa rìdare no sa vìvare.

Chi no se contenta de l’onesto, perde el mànego e anca el zesto.

Chi no se inzegna fa la tegna.

Chi no tien conto de on scheo, no vale on scheo.

Chi no xe bon de rònpare el pan no xe bon de guadagnàrsene.

Chi òrdena paga.

Chi par casa, chi par canpi, on pochi de corni ghe xe par tuti quanti

Chi pesca al fondo cata el tòrbio.

Chi pì ama pì bastona.

Chi pì capisse pì patisse.

Chi pì spende manco spende.

Chi pì xe, manco se vanta.

Chi piègora se fà el lupo se lo magna.

Chi porta la roba da festa ogni dì, o’l xe novizo o no’l ghe n’a pì.

Chi prima no pensa dopo sospira.

Chi prima va al mulin prima màsena.

Chi sbaglia de testa paga de scarsela.

Chi se taja el naso se insànguena la boca.

Chi somena spini no vaga descalzo.

Chi sòmena vento rancura tenpesta.

Chi sparagna el gato magna.

Chi sparte e no se ne tien, el Signore no ghe vole gnanca ben.

Chi sta soto la napa del camin sa da fumo o da agrin.

Chi stima no conpra.

Chi te vole ben te fà piànzare, chi te vole male te fà rìdare.

Chi teme sta in pene.

Chi tende ala pesca poco tresca.

Chi tuto rancura de gnente ga bisogno.

Chi va a l’osto perde el posto.

Chi va a Roma e porta on borsoto, deventa abate o vescovo de boto.

Chi va al marcà co pochi schei li spende male.

Chi va de note ga dele bote.

Chi va in leto senza zena tuta la note se remena.

Chi va pian va lontan, chi va forte va ala morte.

Chi va sa calcossa, chi manda speta risposta.

Chi va via perde la partia.

Chi vol èssare ben vardà vaga a messa scumizià.

Chi vol fare el stronzo massa grosso ghe vien le làgreme ai oci.

Chi vol fare mosto zapa la tera de Agosto.

Chi vol magnare on bon bocon, magna l’oca col scoton.

Chi vol stare ben ciapa le roba come le vien.

Chi vol stare san pissa spesso come on can.

Chi vol vèndare mete in mostra.

Chi vole ‘ndare massa in suso, casca par tera e se ronpe el muso.

Chi vole el can se lo ciapa par la coa.

Chi vole el pomo sbassa la rama, chi vole la tosa careza la mama.

Chi vole inparare a biastemare porta dela legna da ligare.

Chi vole on bel ajàro lo pianta de Jenaro.

Chi vole stare san dai mèdeghi staga lontan.

Chi vole, vaga; chi no vole, manda.

Chi xe svejo a’la luna, dorme al sole.

Ciaro te vedo e presto me ricordo: el moroso distante no vale on corno.

Ciodo, martelo e segon: i miracoli del marangon.

Co l’Adolorata se va verso l’invernata.

Co l’arte e co l’ingano se vive mezo ano; co l’ingano e co l’arte se vive staltra parte.

Co l’età, l’omo fa panza e la fémena fa stomego.

Co le done e co le merde se barufa a po’ se perde.

Co la caveza se liga i cavai, co la parola i òmani.

Co la panza piena se rajona mèjo.

Co le beleze no se magna.

Co poco se vive, co gnente se muore.

Co zento pensieri no se paga on scheo de debito.

Co’ bala l’ocio drito, cuor contrito; co’ bala l’ocio zanco, cuore infranto.

Co’ canta el ciò xe finio de far filò.

Co’ canta el galo sola rosà, core l’aqua par la carezà.

Co’ canta le zigàle de Setenbre no conprare gran.

Co’ capita on bon bocon, mona chi che no ghe ne aprofita.

Co’ casca l’àlbaro tuti fà legna.

Co’ ghe n’è massa le cioche se beca.

Co’ i ga voltà el messale la messa pì no vale.

Co’ i ladri se fa la guera, segno ch’i xe d’acordo.

Co’ i nasse i xe tuti bei, co’ i se marida i xe tuti siuri, co’ i more i xe tuti boni.

Co’ i picoli parla i grandi ga parlà.

Co’ i xe pì i passi che i boconi l’è on andare da cojoni.

Co’ i zenoci se ama le caece no se pol vèdare.

Co’ l’osto xe sola porta no ghe xe nissuni drento.

Co’ la carne xe frusta l’ànema deventa justa.

Co’ la fame vien drento par la porta, l’amore va fora pa’l balcon.

Co’ la man se parte, la boca se verze.

Co’ la oja la xe pronta le ganbe se fà liziere.

Co’ la passienza el gobo va in montagna.

Co’ la piova e col vento, a pescare e a trare no starghe ndare.

Co’ la vaca tien su el muso, bruto tenpo salta suso.

Co’ manca el méjo i osei se beca.

Co’ more el vecio la casa se desfa.

Co’ na man se da e co’ staltra se riceve.

Co’ nasse na femena, nasse na serva; co’ nasse on omo, nasse on paron.

Co’ névega sola foja l’è on inverno che fa oja.

Co’ no ghe n’è, spèndarne; co’ ghe n’è tegner da conto.

Co’ no ghe xe pì gànbari, xe bone anca le zate.

Co’ parla na bela dona la ga senpre rason.

Co’ piase la roba no se varda la spesa.

Co’ piove so la rosà tuto el dì se ghe n’a.

Co’ riva el trenta de Agosto tute le zuche le va ‘rosto.

Co’ riva l’ora terza, o la se driza o la se roversa.

Co’ riva le Madone tute le zuche le xe bone.

Co’ ruza el ton, da calche parte piove.

Co’ se barata, uno ride e staltro se grata.

Co’ se ciapa on vizio se stenta a pèrdarlo.

Co’ se ga da pagare se cata tuti, co’ se ga da tirare no se cata nissuni.

Co’ se ga scumizià no ghe xe pì retegno.

Co’ se guadagna se magna.

Co’ se sta ben se more.

Co’ se xe in balo bisogna balare.

Co’ se xe morti, San Michele pesa le àneme e i preti i candeloti.

Co’ se xe mussi ala matina se lo xe anca ala sera.

Co’ spesso se scalda el forno, poca legna basta.

Co’ te nassi scarognà, te scanpi dal musso e la vaca te tra.

Co’ te senti le racolete cantare xe rivà la primavera.

Co’ te vidi par strada on bòzolo, no starte fermare: o pesi da portare o bote da ciapare.

Co’ toneza de Jenaro chi ga quatro vache se ne magna on paro.

Co’ xe soleselo ghe n’emo on brazelo.

Co’l cavéjo tra al bianchin, assa la dona e tiente el vin.

Co’l fromento tra a l’anguro, tàjelo che’l xe maduro.

Co’l funerale xe finio i parenti se core drio.

Co’l galo canta da galina, la casa va i ruina.

Co’l galo canta so la zena, se no xe belo se serena.

Co’l gran se incurva el contadin se indriza.

Co’l lovo deventa vecio i can ghe pissa incoste.

Co’l mulin xe senza aqua me toca bévare aqua; co’ l’aqua fà ‘ndare el mulin bevo del bon vin.

Co’l sole tramonta i àseni se ponta.

Co’l sorze scanpa, la gata va al paese.

Coi birbi el galantomo fà senpre la figura del cojon.

Col minestro che se minestra se vien minestrà.

Col pan se fà balare i can.

Come che xe grossa la candela, i preti alza la ose.

Confessori e bròcoli i xe boni fin a Pasqua.

Conpare de anelo pare del primo putelo.

Conpra poco e guadagna tanto.

Conti de Lendinara e nobili de Ruigo no vale on figo.

Corpo pien ànema consolà.

Costa depì on vizio che diese fioi.

Culo che caga no ghe xe oro che lo paga.

Cusina che fuma, dona cativa e coverta rota manda l’omo in malora de troto.

 

D

 

Da la Befana la rapa xe vana.

Da on musso no se pole spetarse che peade.

Da San Giorgio se sòmena l’orzo. (23/4)

Da San Marco la vigna buta l’arco. (25/4)

Da San Martin a Nadale ogni poareto sta male.

Da San Matia oncora neve par la via.

Da San Matio ogni fruto xe bonio.

Da San Valentin guerna l’ortesin. (14/2)

Da tristi pagadori se tole ogni moneda.

Dai a chel can che’l xe rabioso.

Dai cupi in su nissun sa gnente.

Dai Santi tote sierpa e guanti.

Davanti al prete, al dotore e a on capitelo càvate senpre el capelo.

De chi no se fida no ghe xe da fidarse.

De drio d’i s-ciopi, d’i cavai davanti e distante dai mati.

De Febraro calche mato va senza tabaro.

De Febraro ogni gata va in gataro.

De Giugno miti la messora in pugno.

De istà ogni beco fà late, de inverno gnanca le bone vache.

De Jenaro ogni galina fa el gnaro.

De la Candelora el dì cresse oncora.

De la Salute meti le maneze ale pute.

De la Sensa le granseole fà partensa.

De Marzo no bisognarìa che pissesse gnanca na rana.

De nose on saco, ma no pì de na fémena par casa.

De note tute le vache xe more.

De Novenbre, quando tona xe segnal de anata bona.

De Otobre, on bel oveto xe p’ dolze de on confeto.

De Pasqua no ghe xe galina che no faza.

De pesse scanpà no se ne ga mai magnà.

De San Luca pianta la rapa e cava la zuca.

De San Martin se sposa la fiola del contadin.

De San Martin se veste el grande e anca el picenin.

De San Michele la piova la bagna la pele.

De San Michele se calza le brute e anca le bele. (29/9)

De San Piero el formento e anca el pero.

De San Tomìo le zornade torna indrio.

De San Valentin fiorisse el spin.

De Sant’Antonio el formento indora.

De Sant’Urban la segala conpisse el gran.

De Santa Giustina tuta la ua xe marzemina.

De siuri ghe n’è de tre sorte: siorsì, siorno’ e sior mona.

Debito sputanà, debito pagà.

Del bon tenpo e dela bona zente no se se stufa mai.

Del calendario e dela passienza no se pole fare senza.

Del Pardon (d’Assisi) se trà la zapa in t’on canton.

Del pito el passo, del polo el volo.

Del too dàmene, ma del mio no stàrmene domandare.

Dele volte el Santo xe grande, ma el miracolo xe picolo.

Dele volte na busia salva la verità.

Dentro de ogni matrimonio se sconde el demonio.

Dicenbre se tole e no rende.

Dicenbre, davanti el te scalda e de drio el te ofende.

Dime ludro, dime can, ma no dirme furlan.

Dio li fà e po’ li conpagna.

Dio manda el fredo secondo i pani.

Dio me varda dala rabia dei boni.

Dio te varda da on magnadore che no beve.

Dio te varda dal vermo del fenocio e da chi che ga on solo ocio.

Dio vede e Dio provede.

Do fémene fà on marcà.

Dolore confidà xe guarìo par metà.

Dona bela e vin bon xe i primi che te assa in abandon.

Dona de mondo no ga mai fondo.

Dona e luna, ora serena ora bruna.

Dona nana, tuta tana.

Dona sconpagnà xe senpre mal vardà.

Done, cani e bacalà no i xe boni se no i xe pestà.

Done e afani scurza i ani.

Dopo i confeti se vede i difeti.

Dopo i ..anta ganbe che trèmola, tete che scanpa.

Dopo i Santi, fora el tabaro e anca i guanti.

Dopo l’amaro vien el dolze.

Dopo la crose na pèrtega par le nose.

Dotori e preti no dà mai gnente a nissun.

Dove che comanda le done e ara le vache, se vede robe mal fate.

Dove che ghe vole fati, no basta le parole.

Dove che ghe xe canpagne ghe xe putane.

Dove che ghe xe tose inamorà, xe inutile tegnere le porte sarà.

Dove che manca i cavai anca i mussi trota.

Dove che no ghe xe vin da travasare e farina da far pan staghe lontan.

Dove che passa la barca pol passare anca el batelo.

Dove che va l’ago va anca el filo.

Dove no ghe xe da guadagnare ghe xe da pèrdare.

Dove no ghe xe ocio no ghe xe làgreme.

Drio ai ani ghe va el judizio.

Dura depì i loamari che i pajari.

Dura depì na pignata rota che una sana.

 

E

 

El baston el xe on cativo maestro.

El bisogno insegna a far de tuto.

El bon figo ga da vere camisa da pitoco, colo da picà e culo da pescadore.

El bon formajo se fà de majo.

El bon vin fà bon sangue.

El bon vin se trova dal paroco.

El bon vin se vende a la soja.

El bon vin xe ciaro, amaro e avaro.

El bon vin, i schei e la bravura poco i dura.

El bòvolo xe on pasto fin: bon par el vecio, bon par el putin.

El butare via xe parente del piànzare.

El cafè xe bon sentà, scotà e scrocà.

El caldo di nezuoi no fà bòjare la pignata.

El can de du paruni more de fame.

El capon xe senpre de stajon.

El carbon l’inzende o l’intenze.

El colmo de luna bel tenpo el cuna.

El desperà xe senpre castrà.

El diavolo fà le pignate ma no i querci.

El diavolo juta i sui.

El diavolo va a cagare senpre sol monte pì grande.

El fero caldo deventa dolze.

El fero se piega, el legno se ronpe.

El fogo fà alegria.

El fogo juta el cogo.

El fogo serve de conpagnia.

El fruto no’l casca mai lontan da l’àlbaro.

El fumo ghe va drio ai bei, i bruti el li sòfega.

El gato sol fogolaro xe segno de miseria.

El judizio salva l’osso del colo.

El laòro dela sega el slonga i brazi e ‘l scurza la tega.

El laòro fato de festa va fora par la finestra.

El lardo vecio conza la minestra.

El leto xe el paradiso d’i poariti.

El leto xe na rosa: se no se dorme se riposa.

El loame de cavalo el fruta on ano e no sò qualo.

El lume xe na meza conpagnia.

El lusso magna la tenca.

El magnare di poariti l’è in bisaca ai siuri.

El malà no magna gnente e ‘l magna tuto.

El male che se vole no xe mai massa.

El male dela pria xe el pezo male che ghe sia.

El male no domanda permesso.

El male riva a cavalo e ‘l parte a piè.

El male vien a carete e ‘l via a onze.

El marangon conosse el legno tristo e quelo bon.

El marangon laora senza stajon.

El marzaro, prima el fà i schei e dopo la cossienza.

El matrimonio no xe belo se no ghe xe gnanca on putelo.

El mèdego pietoso fà la piaga verminosa.

El mèjo xe nemigo del ben.

El miracolo no fà el Santo.

El moleta fà girare la rua, el cortelo intanto se frua.

El mondo xe di’ furbi.

El mondo xe grande: basta voler caminare.

El mondo, mezo el xe vendù e mezo el xe da vèndare.

El morto in cassa, el vivo se la spassa.

El musso, co’l ga magnà el volta el culo ala grupia.

El naso d’i gati, i zenoci d’i òmani e ‘l culo dele fémene xe senpre fridi.

El naso gusta e la boca patisse.

El nome di’ zucuni xe scrito sui cantuni.

El pan del mona xe el primo magnà.

El pan del paron el ga tre croste.

El pan del poareto xe senpre duro.

El pan in mostra xe l’ultimo vendù.

El pare fà la roba, i fioi la vende.

El paron xe el ragno, el contadin la mosca.

El pèrdare xe parente del piànzare.

El pèrsego col vin, el figo co l’aqua.

El pesse ga da noare tre volte: prima intel’aqua, dopo intel’ojo e la terza ‘ntel vin.

El pesse guasta l’aqua, la carne la conza.

El pesse spuza dala testa.

El petegolo xe na spia senza paga.

El poco basta, el massa guasta.

El pòvaro omo no fa mai ben: se more la vaca ghe vanza el fen, se la vaca scanpa e l fen ghe manca.

El pòvaro omo no l’è da conséjo: el parla ben e no’l xe scoltà, el parla male e ‘l xe pica.

El prezo no lo fà l’aventore.

El prezo sgualiva tuto.

El primo ano se ghe vole tanto ben che la se magnaria, el secondo se se ciama grami de no verla magnà.

El primo de Aprile, miti le zuche che le vien come on barile.

El primo fiore xe quelo del vin.

El riso nasse da l’aqua e ‘l ga da morire sol vin.

El rosso xe par l’avocato, la ciara par le spese e la sgussa par chi che vinze.

El rùzene magna el fero.

El sangue no xe aqua.

El sapiente sa poco, l’ignorante el sa massa, ma el mona sa tuto.

El segreto dele femene no lo sa nissun, solo mi, vu e tuto el comun.

El simile col simile, ma le verze co l’ojo.

El Sior de sora ne manda la tenpesta e quelo de soto el magna quel che resta.

El sole de Agosto brusa i piantoni.

El sole magna le ore.

El tènaro ronpe el duro.

El tenpo fà i mistieri.

El tenpo no ghe fà torto a nissuni.

El tenpo e la rason xe senpre del paron.

El tenpo, el culo e i siuri i fà quelo ch’i vole luri.

El vento forte inpiza el fogo o ‘l lo stua.

El vilan el vendarìa el gaban par formajo, piri e pan.

El vilan xe largo de boca e streto de man.

El vin al saore, el pan al colore.

El vin amaro tièntelo caro.

El vin bon no ga bisogno de frasca.

El vin de casa no inbriaga.

El vin xe bon par chi che lo sa bévare El vin xe el late di’ veci.

El zogo rìsega la vita e ròsega la roba.

Erba crua no xe par testa canua.

 

F

 

Fà la corte ale vecie se te vo’ piasérghe ale zòvane.

Facile xe piantare ciodi, ma dificile xe s-ciodarli.

Falo de mèdego, volontà de Dio.

Far ciaro ai orbi e predicare ai sordi el xe tenpo perso.

Fare i mistieri che no se conosse i dìnari i deventa mosche.

Fato ben o fato male, dopo el trato se beve el bocale.

Faustin, poco pan e tanto vin.

Febraro inevà fà bela l’istà.

Fevraro curto, erba da par tuto.

Fevraro curto, pezo de tuto.

Fin a Nadale fredo no fà: braghe da istà; dopo Nadale el fredo xe passà, braghe da istà.

Fin a Nadale magnemo verze e rave.

Fin che dura i bezi, amighi no manca.

Fin che dura la menada dura la polenta.

Fin che l’invidioso se rode, l’invidia se gode.

Fin che na bela xe vardà, na bruta xe maridà.

Fin che ghe xe fià ghe xe speranza.

Fin che ghe xe pan in convento, frati no manca.

Fin che i barufanti tira la vaca, uno pa’ i corni e staltro par la coa, l’avocato monze.

Fin che’l mèdego pensa el malà muore.

Fin che dura sto regno, scarpe de legno.

Fin dai Santi sòmena i canpi.

Finia la festa, finie le candele.

Fioi da slevàre, fero da rosegare.

Fioi picoli, pensieri picoli; fioi grandi, pensieri grandi.

Fiuri e fruti se pol tore da tuti.

Fogo de paja e troto de vecia dura poco.

Fongo de Majo, spighe de Agosto.

Formajo, pan bianco e vin puro fà el polso duro.

Formento butà, paron in piè.

Fra i doturi, in medesina, xe pì bravo chi indovina.

Fra’ Modesto no’l xe mai deventà priore.

Fradei, cortei.

Fredo e fame fà on bruto pelame.

Frua la bareta chi se la cava a tuti.

Fumo e dona ciacolona fà scanpare l’omo de casa.

 

G

 

Galina vecia fà bon brodo.

Garbin no xe tragante né pescantin.

Gato sarà deventa leon.

Ghe vole sete fémene par fare on testimonio.

Ghe xe chi che magna le fave e chi che magna le sgusse.

Ghe xe pì dì che luganega.

Ghe xe pì tenpo che vita.

Giugno, Lujo e Agosto, né dona, né aqua, né mosto.

Gnente, xe bon pa’i oci.

Gran fredo de Jenaro se incolma el granaro.

 

I

 

I “se” e i “ma” se du ebeti da Adamo in qua.

I bauchi casca senpre par tera.

I canpi no vien mai veci.

I cojuni del can e i schei del vilan i xe i primi mostrà.

I curiusi se paga al sabo.

I dì dela merla l’inverno te dà na sberla.

I difeti xe come i odori: li sente pì chi che ghe xe intorno che chi che li porta.

I doluri xe come i schei: chi che li ga se li tien.

I du Santi del giazo: San Luigino e San Paolino i porta l’Inverno de Giugno.

I fali, el médego li sconde la tera.

I fasoi veci nasse in panza.

I fasoi xe la carne di’ poariti.

I fioi no porta carestia.

I fioi vien dal cuore, el marìo dala porta.

I mèdeghi e le patate ga i fruti soto tera.

I mona se conosse da do robe: dal parlare, quando che i dovaria tasere; dal tasere, quando che i dovaria parlare.

I morti verze i oci ai vivi.

I muri veci fà panza.

I nostri veci ga magnà i canpi e i ne ga assà i proverbi.

I nostri veci ga magnà i capuni e i ne ga assà i proverbi.

I nostri veci stava zento ani col culo ala piova prima de fare on proverbio.

I oci del spazacamin xe senpre bianchi.

I òmani ala guera e le vache in montagna no se garantisse.

I òmani ga i ani ch’i se sente, le done quei che le mostra.

I ovi xe boni anca dopo Pasqua.

I parenti xe come le scarpe: pì striti i xe, pì male i fà.

I preti fà bòjare la pignata co le fiame del purgatorio.

I primi capuni fà la coa bela.

I salgari no fa ojo.

I Santi novi scalza i veci.

I schei fà balare i sorzi.

I schei porta l’oca al paron.

I schei vien de passo e i va al galopo.

I siuri ga el paradiso de qua e quelo de là i se lo conpra.

I siuri more de fame, i poariti de indigestion, i frati de caldo e i preti de fredo.

I ùltimi de Jenaro, sèntate sol fogolaro.

I veci porta la morte davanti e i zòvani de drio.

In amore nasse corajo se te magni del formajo.

In casa de ladri no se roba.

In casa de pescaduri l’è on tristo pescare.

In casa strinzi, in viajo spendi, in malatia spandi.

In istà la vache va in montagna a fare le siore, e le siore va in montagna a fare le vache.

In t’el mistiero del munaro, tanto se roba co la stadiza che col staro.

In t’i misi che ga l’ “ere” no senteve sole piere.

In tenpo de peste pì baje che feste.

Incalmà in onore de San Francesco, se no’l taca de verde el taca de seco.

I Santi de casa no fà miracoli.

 

J

 

Jenaro co la pòlvare, granaro de ròare.

Jenaro e Febraro i xe du misi che va a paro.

Jenaro suto, gran dapartuto.

 

L

 

L’altissimo de sora ne manda la tenpesta, l’altissimo de soto ne magna quel che resta, e in mezo a sti du altissimi, restemo povarissimi.

L’amigo del prete perde la relijon, l’amigo del dotore perde la salute, l’amigo del’avocato perde la causa.

L’amore del vecio sa da scaldaleto.

L’amore fà passare el tenpo, e ‘l tenpo fà passare l’amore.

L’amore no ciapa rùzene.

L’amore no xe fato solo de amore.

L’amore vecio no fà mai la mufa.

L’amore xe potente, ma l’oro onipotente.

L’aqua de Giugno ruina el munaro.

L’aqua de Majo ingrassa el formento.

L’aqua de San Gaetano la tole l’afano. (7/8)

L’aqua de San Giacomo la fà miracoli.

L’aqua de San Gregorio fà ranpegare la végna.

L’aqua de San Joani guarisse tuti i malani.

L’aqua morta fà spuza.

L’aqua ronpe dove che no se crede.

L’aqua smarzisse i pali.

L’arcobaleno ala matina bagna el beco ala galina.

L’aria de Febraro xe come on loamaro.

L’aria de martina xe na bona medesina.

L’aria de San Matìa (24/2) dura fin a San Giorgio, e l’aria de San Giorgio dura fin a S.Urban.

L’avaro farìa de manco de cagare par no butare via gnanca quela.

L’avaro xe come el porco, che no’l xe bon che dopo morto.

L’inverno l’è el boia di’ veci, el purgatorio di’ putei e l’inferno di’ poariti.

L’istà de San Martin dura tri dì e on pochetin.

L’ocasion fà l’omo ladro.

L’ocio del paron ingrassa le bestie.

L’omo el tien su on canton dela casa, la fémena staltri tri.

L’omo fà la dona e la dona fà l’omo.

L’omo maridà porta quatro “p”: pene, pensieri, pentiminti e pecati.

L’omo pì bruto xe quelo che ga le scarsèle roverse.

L’omo propone, Dio dispone.

L’omo: che’l sia san, cristian e che’l sapia guadagnarse el pan.

L’onbra d’istà fà male ala panza d’inverno.

L’onbra del canpanile ingrassa e salva.

L’onore xe come el vento: el va fora da tuti i busi.

L’oro no ciapa macia.

L’orto xe mezo porco.

L’ortolan ga senpre tera in man.

L’ospite xe come el pesse: dopo tri dì el taca a spuzare.

L’ovo del luni pagan l’è del diavolo.

L’ultimo abito ch’i ne fà l’è senza scarsèle.

L’ultimo che more de fame xe ‘l munaro.

L’ultimo goto xe quelo che inbriaga.

L’ultimo ovo xe quelo che scoraja el musso.

L’union dela fameja sta int’el casson dela farina.

La beleza la va e la vien: la xe la bontà che se mantien.

La boca e el culo i xe fradei.

La boca la se liga solo ai sachi.

La boca la xe picola, ma la xe bona de magnare canpi e velada.

La boca no xe straca se prima no la sa de vaca.

La bona maniera la piase a tuti.

La bona mojère fà el bon marìo.

La bota la dà el vin che la ga.

La bota la fà el vin.

La bota piena tase.

La burla no la xe bela se no la xe fata a tenpo.

La caena no ga paura del fumo.

La camisa del spazacamin xe senpre sporca.

La carità, farla anca al diavolo, la xe senpre ben fata.

La casa no fà fighi.

La coa massa longa xe quela che copa la volpe.

La coéga cola sol lardo.

La dona xe come la castagna: bela de fora, dentro la magagna.

La dona va sojeta a quatro malatie al’ano e ogni una dura tri misi.

La fadiga fa catare l’inzegno.

La fame xe el mejo aperitivo che ghe sia.

La fémena xe come l’aqua santa: tanto fà poca come tanta.

La fémena xe come on falzin: batarla ogni tanto, guzarla senpre.

La fortuna la ghe va drio ai orbi.

La frégola la vien dal toco.

La joza scava la piera.

La justizia xe fata a maja.

La legna de nogara fà desperare la massara.

La legna la scalde depì prima de trarla drento la stua che dopo.

La lengua bate dove che’l dente duole.

La luna nuova la cava el seco.

La menestra la xe la biava del’omo.

La merda fà schei.

La mojère xe come na scoreza: o ti ‘a moli o ti ‘a sòfeghi.

La morte del lovo xe la salute dele piègore.

La morte no ga lunario.

La morte xe senpre pronta, come le tole dei osti.

La neve decenbrina disisète volte la se capina.

La note xe fata pa’ i alochi.

La paja tacà al fogo la se inpizza.

La panza d’i preti la xe el zimitero d’i capuni.

La parola liga l’omo, la corda el musso.

La passienza xe la minestra dei bechi e la speranza xe l’altare dei cojoni.

La pezo roa del caro xe quela che ruza.

La piègora xe benedeta dal culo e maledeta dala boca.

La pignata de l’artesan, se no la boje oncuò la boje doman.

La pigrizia la va tanto pian che la miseria la ciapa.

La piova de primavera ghe ronpe la rogna ala tera.

La piova de San Bernardin la roba pan, ojo e vin.

La piova del’Assension fà bela la stajon.

La piovesina ingana el vilan: par che no piova e la spassa el gaban.

La prima fachina, la seconda regina.

La prima galina che canta ga fato l’ovo.

La prima xe matrimonio, la seconda conpagnia e la terza na eresia.

La pulizia va ben dapartuto, fora che in granaro.

La rason del poareto no la vale on peto.

La ràza no va su par el talpon.

La roba bona no la resta in botega.

La roba bona no la xe mai cara.

La roba che se buta via coi piè, vien dì che la se rancura co le man.

La roba donà fà male ala panza.

La roba in mostra xe quela che no se vende.

La roba marida la goba.

La roba no xe de chi che la fà, ma de chi che la gode.

La roba ordenà la vol èssare pagà.

La rosà de Majo guarisse le buganze de genajo.

La salata la vole el sale da on sapiente, l’aseo da on avaro, l’ojo da on prodigo, smissià da on mato e magnà da on afamà.

La sega misura el brazzo.

La speranza xe el pan d’i poariti.

La spia xe pezo del ladro.

La strigheta mete le feste in sacheta.

La tera e i canpi li laora i ignoranti.

La tera xe mare e maregna.

La testa del barbon xe el mejo bocon.

La tosse xe ‘l tanburo dela morte.

La vigilia de San Joani piove tuti i ani.

La vita xe come na scala par le galine: curta e piena de merde.

La zeola la xe la rufiana del cuogo.

Laòro de manareto poco e maledeto.

Laòro de sachi laòro da mati.

Le bele par dileto, le brute par dispeto.

Le bestie se trata da bestie.

Le bone azion xe come le vivande, che no le vale gnente co’ le spuza da fumo.

Le bone parole onze, le cative ponze.

Le canpane de San Martin vèrze le porte al vin.

Le ciàcole no inpasta fritole.

Le disgrazie ga le ale, la fortuna i piè de pionbo.

Le done xe sante in cèsa, angeli in strada, diavoli in casa, zoéte sol balcon, gaze so la porta.

Le femene co’ le se confessa le dise senpre quelo che no le ga fato.

Le fémene no sa de èssare sentà dessora ala so fortuna.

Le maledission le salta de qua e de là e le finisse sol culo de chi che le ga dà.

Le maravéje dura tri dì.

Le montagne sta ferme e i òmani se move.

Le mosche le va drio ai cavai magri.

Le novità le piase a chi che no ga gnente da pèrdare.

Le parole del moleta no le vale on’eta.

Le parole no inpinisse la panza.

Le ràcole ciama piova.

Le scarpe de on vilan no le farà mai na bela peca.

Le tose lo desidera, le maridà lo prova, le vedove lo ricorda.

Le vache pissa, i manzi sbrissa e i bo’ veci xe quei che tira.

Le zuche nate fra le do madone le xe le pì bone.

Le zuche vode le sta sora l’aqua.

Le zuche vode vien senpre a gala.

Legna de fasso presto te vedo e presto te lasso.

Legno de sanbugaro no fa bronza e no fa ciaro.

Leto fato e fémena petenà, la casa xe destrigà.

Libri, done e cavai no se inpresta mai.

Lìssia e pan: dale done staghe lontan.

Loame de porco no loama né canpo, né orto.

Loame, rivai e cavedagne, benedission dele canpagne.

Lujo in tana, se piove la xe na mana.

Luna bassa, pescadore sicuro.

Luna in piè, marinaro sentà; luna sentà, marinaro in piè.

Luna nuova tri dì de piova.

Luna setenbrina sete lune se ghe inchina.

Luna setenbrina, sete lune la indovina.

 

M

 

Magari polenta e pessin, ma na bela testa sol cussin.

Magna da san e bivi da malà.

Magnà i gànbari se ciucia anca le zate.

Magna la lana, ma salva la piégora.

Magna renghe e sardeloni: te conservarè i polmoni.

Magna, bivi e godi, ma no inpiantare ciodi.

Mai assàre la strada vecia par quela nuova.

Mai fare male par spetarse ben.

Majo fresco e ventoso fà l’ano copioso.

Majo fresco, fava e formento.

Majo fresco, paja e formento.

Majo ortolan, tanta paja e poco gran.

Majo piovoso, vin costoso.

Majo suto, gran dapartuto.

Mal de testa vole magnare, mal de panza vole cagare.

Marcante e porco stimalo dopo morto.

Maroni e vin novo, scoreze de fogo.

Marsoni friti e polentina, on fià de vézena e vin de spina.

Marzo el se fà vanti, el merlo el fà noze coi so canti.

Marzo spolvarento, poca paja e tanto formento.

Marzo suto e Aprile bagnà: beato chel contadin che ga somenà.

Marzo sventolaro fromento in granaro.

Marzo sventolon, more la piègora e anca el molton.

Marzo, par quanto tristo che’l sia, el buò al’erba e ‘l cavalo al’onbrìa.

Mati chi mete e mati chi no mete.

Mèdeghi e guera spopola la tera.

Mèdego vecio e chirurgo zòvane.

Mèjo ‘vere du schei de mona che passare par massa svejo.

Mèjo du vivi (fioi) che uno morto.

Mèjo el tacon del sbrego.

Mèjo fare on toso che fare na polenta.

Mèjo le braghe sbuse sol culo che el culo sbuso so le braghe.

Mèjo na dona bela senza camisa che na bruta co sete camise.

Mèjo na torta in du che na merda da ti solo.

Mèjo on àseno vivo che on dotore morto.

Mèjo on magro acordo che na grassa sentenza.

Mèjo on ovo oncuò che na galina doman.

Méjo on piato de bela ziera che zento pastizi.

Mèjo on sorze in boca a on gato che on omo par le man de on avocato.

Mèjo on tacon che mostrare el culo.

Mèjo paron de on canpo che fituale de na canpagna.

Mèjo piànzarli morti inocenti che vivi delinquenti.

Mèjo picoli e ben conpìi che grandi e insemenii.

Merda e aqua santa fà la racolta tanta.

Merlo in te’l camin trema el contadin.

Mese de Agosto, colonbo rosto.

Minestra rescaldà no xe mai bona.

Misura el ciodo prima de piantarlo.

Miti le straze int’on canton che vegnarà la so stajon.

Morire xe l’ultima capèla che se fà.

Morto on papa se ne fà ‘nantro.

 

N

 

Na bona aqua de Febraro vale pì de on loamaro.

Na dona stenta a dirghe bela a ‘nantra.

Na dona bela pole zernìre, la bruta tole su a fato.

Na faliva basta a brusare na casa.

Na fémena pianta e despianta na fameja.

Na joza de miele conza on mare de fiele.

Na man lava l’altra e tute do lava el muso.

Na mota e na busa fà on gualivo.

Na pena ala volta se pela l’oca.

Na serenada de note dura fin che on can fà le balote.

Na volta core el lièvore, na volta core el can.

Nadale col mandolato, i Morti co la fava, Pasqua co la fugazza.

Né a l’ocio, né a l’ongia no ghe vole gnente che sponcia.

Né co torenti, né co potenti no star strénzare i denti.

Né de inverno, né de istà tabaro e onbrela mai a ca’.

Né la malatia, né la preson fà deventare l’omo bon.

Né na parola dita, né on naso tirà no torna indrio.

Né panza, né rogna, né tosse se sconde.

Né re, né disnare no se fà mai spetare.

Né zarese, né galete in granaro no se mete.

Nebia bassa bel tenpo la lassa.

Nela luna setenbrina la sardela se rafina.

Neve de Jenaro inpina el granaro.

Neve novenbrina trédese volte la se rafina.

No bisogna domandarghe a l’osto se’l ga bon vin.

No bisogna inpizzare el fogo fora dala pignata.

No bisogna magnare i ovi prima de verghe cavà la sgussa.

No fare el passo pì longo del ganba.

No ghe n’è mai bastanza se no ghe ne vanza.

No ghe xe avere che conta depì del savere.

No ghe xe carne in becaria che presto o tardi no la vaga via.

No ghe xe erba che varda in su che no gabia la so virtù.

No ghe xe farina senza sémola, nosèla senza scorza, gran senza paja e omo senza difeti.

No ghe xe gnente de pì bon del colo del capon.

No ghe xe mai ben che no gabia el so male.

No ghe xe matrimonio che no ghe entra el demonio.

No ghe xe nessun ladron che no gabia la so devozion.

No ghe xe on sabo santo al mondo che la luna no gabia fato el tondo.

No ghe xe pignata che covercio no la cata.

No ghe xe polastrina che par le feste de Pasqua no sia galina.

No ghe xe rizeta par la paura.

No ghe xe scoa vecia che in cao l’ano no la vegna bona.

No ghe xe sordo pì grande de quelo che no vole scoltare.

No ghe xe straza che no la vegna bona.

No pole èssare jutà chi che no vole èssare consilià.

No revoltare la merda, parché la spuza.

No se dise vaca mora se no ghe n’è on pelo.

No se fà on capelo par na sola piova.

No se ga se no quel che se gode.

No se pole ‘ndare in paradiso a dispeto di’ Santi.

No se pole avere la bota piena e la mojère inbriaga.

No se pole caminare sola neve senza assare peche.

No se pole cantare e portare la crose.

No se pole far cagare i mussi par forza.

No se spua sol piato che se magna.

No serve butare el manego drio la manara.

No spèndare tuto quelo che se ga, no dire tuto quelo che se sa.

No te far capo dela conpagnia, parché te si po’ quelo che paga a l’ostaria.

No tocare can che ròsega e zugadore che perde.

No tona mai par gnente.

No vien Majo se no fiorisse le rose.

No xe colpa dela gata se la parona la xe mata.

Nose e done no se sa quale che sia bone.

Nose e pan, magnare da can.

Nose e pan, pasto da vilan.

Novantanove maridà fà zento bechi.

Novenbre col ton, l’ano xe bon.

Novenbre e Dicenbre benedisse Setenbre.

Novenbre, co San Martin ano novo par el contadin.

Novo paron, nova leje.

Nuvole in montagna no bagna la canpagna.

 

O

 

O basa sto cristo o salta sto fosso.

O dal cao o dala coa l’inverno vol dire la soa.

O magna sta minestra o salta sta finestra.

O prima o dopo se fà anca le zuche.

O tardi o bonora, l’osto va in malora.

Oci e lengua xe le spie de tante malatie.

Oci mori, rubacuori; oci bisi, paradisi; oci celeste fà inamorare; oci bianchi fà cagare.

Ocio celeste, ocio de dama; ocio moro, ocio da putana.

Ocio no vede e boca tase par chi che vol vìvare in pase.

Ocio no vede, cuore no sente.

Odio de preti, vendeta de frati e rogna de ebrei, miserere mei.

Ogni bela scarpa deventa na bruta zavata.

Ogni can mena la coa, ogni mona vol dire la soa.

Ogni dì nasse on cuco.

Ogni fémena xe casta se no la ga chi la cazza.

Ogni galo senza cresta xe on capon, ogni omo senza barba xe on cojon.

Ogni osèlo no conosse el bon gran.

Ogni paese ga le so usanze, ogni porta ga el so batocio.

Ogni piataro dise ben del so pignate.

Ogni Santo juta.

Ogni Santo vole la so candela.

Ogni vin fà alegria se’l se beve in conpagnia.

Omo de confin, o ladro o assassin.

Omo lodà, o morto o scanpà.

Omo maridà, oselo in gabia.

Omo vivo pagarà, omo morto ga pagà.

On alto e on basso fà on gualivo.

On baso, na forbìa: el baso xe nda via.

On bel ciapare fà on bel spèndare.

On bel védare fà on bel crédare.

On bon vèndare fà on bon guadagno.

On legno solo no brusa.

On lièvore fra du can, on contadin fra du avocati, on malà fra du doturi: chi sta pèzo de luri!

On mato fà ridare quatro.

On mulin in aqua e uno in casa.

On ocio ala gata e staltro ala paèla.

On omo in man del’avocato xe come on sorze in boca al gato.

On palo in piè, na stropa domà e na fémena colgà i porta quanto peso che te voi.

On pare mantien sete fioi, sete fioi no xe boni de mantegnere on pare.

On pomo de matina te cava el cataro e te fa pissare ciaro.

On stizo solo no fà banpa.

Onore de boca poco vale e manco costa

Oro bon no ciapa macia.

Osèlo de s-ciapo no xe mai grasso.

Ovo de on’ora, pan de on dì, vin de on ano, dona de quìndese e amigo de trenta.

 

P

 

Pan che canta, vin che salta e formajo che pianza.

Pan e nose xe on magnare da spose.

Pan e nosele, magnar da putele.

Pan fin che’l dura, vin a misura.

Pan padovan, vini visentini, tripe trevisane e done veneziane.

Pan, sopressa e conpagnia su ‘nte’l bosco fà alegria.

Pan, vin e zoca, lassa pur che’l fioca.

Panza piena vole riposo.

Panza voda camisa tacà.

Par amore no se sente rason.

Par ben lustrare ghe vole ojo de gunbio.

Par el seco xe bona anca la tenpesta.

Par gnente l’orbo no canta.

Par i orbi no xe mai ciaro.

Par i Santi, neve sui canpi; par i Morti, neve sui orti.

Par l’Anunziata el rossignolo so la saca.

Par l’Anunziata la zuca xe nata.

Par on frate scontento no se sara el convento.

Par quanto bone che le sia le madone sta ben sui quadri.

Par San Barnabà el dì pì longo de l’Istà.

Par San Corado vèrzi la porta al caldo.

Par San Damàso el fredo al toca el naso.

Par San Domin sòmena el contadin.

Par San Fredian la neve la va al monte e al pian.

Par San Gioachin, l’ortolan nel camarin.

Par San Lorenzo la nosa xe fata.

Par San Matio le jornade torna indrio.

Par San Paolo el jazo va al diavolo.

Par Sant’Antonin, poca paja e poco vin.

Par Santa Cristina se sòmena la sajina.

Par Santa Fiorenza xe oncora bona la somenza.

Par Santa Pologna la tera la perde la rogna.

Par Santa Taresa prepara la tesa.

Par savere la verità bisogna sentire du busiari.

Par scòndare i difeti basta frequentare conpagnie dela stessa cagà.

Par tuti i Santi, manegoti e guanti.

Par volere savere de tuto se sa anca de mona.

Parché la dona sia perfeta la ga da vére 4 ‘M': matrona in strada, modesta in cèsa, massara in casa, mata in leto.

Pare che guadagna, fioi che magna.

Parenti mal de denti.

Parere e èssare xe come filare e no tèssare.

Pasqua vegna quando se voia, la vien co la frasca e co la foia.

Pensare e vìvare mèjo chel poco che se vive.

Pèrsego e melon tuto ala so’ stajon.

Pesa justo e vendi caro.

Pesse grosso magna pesse picolo.

Pèto picenin, late pegorin.

Pì de veci no se pole vegnere.

Pì in alto se va e pì se mostra el culo.

Picola al balo, grande a cavalo.

Pifania, el pì gran fredo che ghe sia.

Piova d’Istà, beati che che la ga.

Piova de Jenaro, erba de Febraro.

Piova de San Piero, piova col caldiero.

Piova de San Roco la dura poco.

Piova o sole, le strighe va in amore.

Piove pì àneme al’inferno che neve de inverno.

Pitosto che le tarme la magna, xe mejo che i osei la bècola.

Pitosto che roba vanza, crepa panza.

Pitosto che soto paron in nave, mèjo paruni de na sèssola.

Pitosto che spàndarghene on jozo xe mejo bévarghene on pozo.

Pitosto che’l palin, mejo el spazin.

Poco xe mejo de gnente.

Polenta brustolà la smorza el figà.

Polenta e late ingrossa le culate.

Polenta e puina, pì che se core, manco se camina.

Polenta nova e osei de riva, vin de grota e zente viva.

Polenta senza sale, ma on bel viseto sol cavazale.

Pòlvare de Jenaro la inpina el granaro.

Porco ingrassà no xe mai contento.

Povertà co bona testa no finisse, ma richeza senza testa finisse a l’ospedale.

Presto in pescaria, tardi in becaria.

Prete in capela, novità bela.

Prete, dotore e comare, no te ne ingatejare.

Priego a magnare, priego a laorare.

Prima de jutare on estraneo, pènsaghe do volte; prima de jutare on parente, vinti.

Prima de parlare bisogna fare come el galo, che prima de cantare el sbate tre volte le ale.

Prima de parlare, tasi.

Prima se varda el buso, po’ se fà el caecio.

Primavera de Jenaro la ruina el persegaro

Primo de Agosto, capo de inverno.

Primo sparagno, primo guadagno.

Puina in ponta, formajo in crosta e salame in coa.

Putei e colunbi insmerda la casa.

 

Q

 

Quando a Novenbre el vin no xe pì mosto, la pitona xe pronta par el ‘rosto.

Quando a Otobre scurisse e tòna, l’invernada sarà bona.

Quando canbia on prete, tra fare e desfare l’è tuto on laorare.

Quando canta le grole ghemo burasca par tri dì.

Quando ch’el gato dorme i sorzi bala.

Quando ch’el xe tajà e inbastìo ogni cuco ghe va drio.

Quando che l’Anzolo Michele se bagna le ale piove fin a Nadale.

Quando che l’aqua toca el culo tuti inpara a noare.

Quando che l’omo xe pien de vin el te parla anca in latin.

Quando che l’omo xe stimà el pole pissare in leto e dire che’l ga suà.

Quando che la barca va ogni cojon la para.

Quando che la merda monta in scagno, o che la spuza o che la fà dano.

Quando che la spiga ponze, la sardela onze.

Quando che la zuca se ingrossa el pecòlo se seca.

Quando che manca el gran le galine se beca.

Quando che manca i cavai i mussi trota.

Quando che no se pole ciapare el pesse se ciapa le rane.

Quando che piove col sole le strighe fà l’amore.

Quando che piove el dì de San Gorgon, piove par na stajon. (9/9)

Quando che piove i mati se move.

Quando che se sente el ton da calche parte piove.

Quando che te magni la nèspola, pianzi.

Quando che tira vento, ghe xe fredo co ogni tenpo.

Quando che tuti te dise inbriago, va in leto.

Quando che uno sa fare i capèi el pol farli par qualunque testa.

Quando che uno xe inbriago, tuti vol darghe da bévare.

Quando che’l fumo va in tera, burasca se spera.

Quando che’l galo canta zo de ora, doman no xe pì el tenpo de ‘sta ora.

Quando che’l pitoco mete le braghe sol leto ghe nasse on fiolo.

Quando che’l Signore vuole castigare uno el ghe manda l’ispirazion o de sposarse, o de torse on musso o on’ostaria.

Quando che’l sole indora, nieve, nieve e nieve oncora.

Quando che’l sole se volta indrio, xe belo anca el dì drio.

Quando che’l sorgo rosso el mostra el muso, xe ora de tore la roca e el fuso.

Quando che’l vin no xe pì mosto, la castagna xe bona a rosto.

Quando che’l zoba xe par via, la ‘stimana xe finia.

Quando Dio vol castigar un omo el ghe mete in testa de maridarse.

Quando el merlo canta d’amore Febraro finisse.

Quando el Venda fa el pan, se no piove oncuò piove doman.

Quando el Venda ga el capelo o fa bruto o fa belo.

Quando la canavera fà el penacio, tanta neve e tanto jazzo.

Quando la forza co la rason contrasta, vinze la forza e la rason no basta.

Quando la merda varà calcossa, i poariti nassarà senza buso del culo.

Quando la mojère se mete le braghesse, al marìo no ghe resta che le còtole.

Quando la ràcola canta, piova tanta.

Quando la rosa buta el spin, magna gò e passarin.

Quando le done fa la lissia sola via, l’inverno sbrissa via.

Quando le nuvole va in montagna, ciapa la zapa e va in canpagna.

Quando le nuvole vien dal mare, ciapa i buò e va a arare; quando le nuvole vien dal monte ciapa i buò e va ala corte.

Quando Mercurio insaca Giove, in setimana piove.

Quando piove par la Crose, bon el gran, triste le nose.

Quando ruza el fogo, zente, parente o lengua maldizente.

Quando se travasa se beve.

Quando se vede la raìna se no piove oncuò piove domatina.

Quando semo a San Simon, ogni straza la vien bon.

Quando xe ciara la marina, magna, bivi e va in cusina.

Quando xe ciara la montagna, magna, bivi e va in canpagna.

Quatro a on segon, du a on capon.

Quatro oci vede pì de du.

Quel che Lujo no vole, Setenbre no pole.

Quel che se vede no xe de fede.

Quelo che no sòfega ingrassa.

Quelo che no strangola ingrassa e quelo che no ingrassa passa.

Quelo che no vien dala porta vien da l’orto.

 

R

 

Ramo curto vendema longa.

Rechie-meterna, chi che li ga fati se li guerna.

Reve e guseleta mantien la poareta.

Rìdare e vardare xe parente del cojonare.

Risi bianchi, magnar da béchi.

Rispeta el can par el so paron.

Roa roa, tuti a casa soa.

Roba fruà no tien ponto.

Roba rara, roba cara.

Roba robà no fà conpanàdego.

Roba robà, come la vien la va.

Rose e ortighe, mai amighe.

Rossa de pelo, mata par l’osèlo.

Rosso de matina la piova se avizina.

Rosso de matina, o piova o piovesina.

Rosso de pelo, zento diavoli par cavejo.

Rosso de sera bel tenpo se spera.

 

S

 

S-ciopo vodo fà paura a du.

Sa pì el papa e on contadin che el papa da elo solo.

Sa volì ca ve lo diga ve lo digo: chi che casca in povertà perde l’amigo.

Sa volì conossare na persona, vardè la dona al balo e l’omo al zogo.

Sa volì védare el diluvio universale, metì dodese preti a tola a magnare.

Saco roto no tien méjo.

Saco vodo no sta in piè.

Sale bagnà ciama piova.

San Bastian ga la viola in man.

San Benedeto ghe ne porta on sacheto. (21/3)

San Biasio, el fredo va adasio.

San Biasio, ultimo barbon marcante de neve. (3/2)

San Bogo, la torta al fogo.

San Colonban el riva co la neve in man. (21/11)

San Gregorion el pole portare on robalton. (3/9)

San Mauro fà i ponti, Sant’Antonio li ronpe, San Paolo li fonda.

San Paolo ciaro inpinisse el granaro. (25/1)

San Paolo San Paolon, tote su la scala e va a bruscare el vegnon.

San Piero benedisse la tenpesta.

San Prodocimo e San Daniele marcanti de neve. (7/11)

San Valentin dal fredo fin, l’erba la mete el dentin. (14/2)

San Valentin, el jazzo no’l tien pì gnanca on gardelin.

San Vidale, marcante de piova. (28/4)

San Vincenzo, gran fredura; San Lorenzo, gran calura: l’uno e l’altro poco i dura.

Sant’Agostin, daghe el primo pontin. (28/8)

Sant’Agostin, taca le màneghe al bustin.

Sant’Antonin el vien lezièro: ormai semo ale asse sia in stala che in granaro. (10/5)

Sant’Antonio Abate se no ghe xe el jazzo el lo fà, se’l ghe xe el lo desfa.

Sant’Antonio Barbon (Abate) marcante de neve.

Sant’Antonio del paneto el vien col segheto. (13/6)

Sant’Antonio se ga inamorà de on porzeleto.

Sant’Omobon, neve o tenpo bon. (13/11)

Sant’Urban pastore de nuvole.

Santa Barbara benedeta, tien distante el fulmine e la saeta. (4/12)

Santa Eulalìa el fredo la porta via. (12/2)

Santa Fosca, se giazo la trova col fuso la scoa; se giazo no la ghe n’à catà, giazo la fà. (13/2)

Santa Giuliana el fredo se rufiana. (16/2)

Santa Giustina dela sgussetina. (7/10/)

Santa Luzzia el fredo cruzzia. (13/12)

Santa Madaléna, onguenti e balsami la ne insegna. (22/7)

Santa Poinara, la vecia (galina) sora la caponara.

Santi che pissa in tera no ghe n’è.

Sbaglia anca el prete a dir messa.

Scarpa larga e goto pien, ciapa le robe come le vien.

Scarpe grosse e marìo bruto, va tranquila dapartuto.

Scarpe vecie sparagna le nove.

Schei de zogo sta on ora par logo.

Schei e amicissia orba la giustissia.

Scherza co i fanti ma assa stare i Santi.

Se ‘l dì de San Martin el sole se insaca, vendi el pan e tote la vaca; Se ‘l va zo seren, vendi la vaca e tiente el fen. (11/11)

Se a San Medardo piova, dopo quaranta dì rifà la prova. (8/6)
Se ciapa pì mosche co na jozza de miele che co na bota de aseo.

Se Dio no vole, gnanca i Santi pole.

Se el primo tenporale el se sente a vale, bon ano senza tonpesta; se da monte a matina, on ano de ruina; se tona a mezodì o sera, bon ano se spera; se’l primo ton vien dal mantovan, vale pì el saco del pan.

Se fà belo a San Gorgon la vendema va benon.

Se fà fredo a San Luigino, farà caldo a San Paolino. (21/6-22/6)

Se fà spira la man drita, schei da dare; se fà spira la man zanca, schei da tirare.

Se Febraro no verdéga in Aprile no se sega.

Se Giugno sguaza poco vin in taza.

Se i dise male de to fiola, ciama la comare.

Se Jenaro no fà el giazo, Febraro fà el pajazo.

Se l’invidia fusse freve tuto el mondo scotaria.

Se l’invidia fusse rogna, quanti che se gratarìa.

Se la galina tasesse, nissun savarìa che la ga fato l’ovo.

Se la luna fa on gran ciaro, poco fromento e tanto pajaro.

Se la luna xe in colore el canego more.

Se le parole paghesse dazio, sarìa on afar serio.

Se Majo fà fresco va ben la fava e anca el formento.

Se Majo rasserena, ogni spiga sarà piena.

Se Marzo buta erba Aprile buta merda.

Se Marzo no incodega, a Majo no se sega.

Se Marzo resenta, fromento e polenta.

Se mi dormo, dormo a mi; sa laoro no sò a chi.

Se na dona xe bela, partorisse na putela.

Se Nadale vien senza luna, chi ga do vache se ne magna una.

Se no fa caldo a Lujo e Agosto sarà tristo el mosto.

Se no ghe fusse la cola e ‘l stuco el marangon sarìa distruto.

Se no piove a San Medardo piove a San Gervasio. (19/6)

Se no piove so l’olivela piove so la brazadela.

Se no te caghi te cagarè, se no te pissi te creparè.

Se no te me vidi de San Giusepe patriarca, o che son perso o che son in aqua. (19/3)

Se no te scota, no ocore supiarghe su.

Se Otobre camina lento te pol èssare contento.

Se par Setenbre no te ghe arà, tuto l’ano xe malandà.

Se piove a Pentecoste, tute le entrate no le xe nostre.

Se piove a San Bàrnaba la ua bianca la va via; se piove da matina a sera, va via la bianca e anca la nera. (11/6)

Se piove a San Duane se suga le fontane.

Se piove a San Giorgio ghe sarà carestia de fighi. (23/4)

Se piove a San Gregorion, piove tuta la stajon. (3/9)

Se piove a San Paolo e Piero, piove par on ano intièro. (29/6)

Se piove a San Vito e Modesto, la ua va torla col zesto. (15/6)

Se piove a Sant’Ana, la xe na mana.

Se piove a Sant’Urban ogni spiga perde on gran.

Se piove a Santa Bibiana, piove par quaranta dì e ‘na setimana.

Se piove a Santa Desiderata, casca la ua e resta la grata. (14/6)

Se piove ai primi de Majo, nose e fighi fà bon viajo.

Se piove ai quaranta Santi, aqua par altretanti.

Se piove da la Madona, la xe oncora bona.

Se piove de San Duane, fen e paja deventa loame.

Se piove de San Gorgon, sete brentane e on brentanon.

Se piove el dì de San Gorgonio, autuno demonio.

Se piove el dì de Santa Crose el fà cascare le nose.

Se piove par San Vio al vin còreghe drio.

Se piove sole Palme no piove sui ovi.

Se piove sui cavajuni, bondanza de galine e ovi.

Se San Michele no se bagna le ale, farà belo fin a Nadale.

Se San Michele se bagna le ale, piove fin a Nadale.

Se Sant’Antonio fa el ponte, San Paolo lo ronpe.

Se te ghe na bruta mojere, va in leto al scuro.

Se te ghe poco vin, véndite anca el tin.

Se te voi catare on fiore no sta témare el spin.

Se tuti i basi fusse busi, tuti i musi sarìa sbusi.

Se tuti i bechi portasse on lanpion, che gran iluminazion.

Se uno vole che l’amicizia se mantegna, che na sporta vaga e ‘staltra vegna.

Se va ben la matina, tuto el dì ben camina.

Se varda on sbaro de erba: se pol vardare anca na persona piena de merda.

Se vènta ai tri de Marzo e al dì de San Gregorio, vènta par quaranta dì. (12/3)

Se vento no tra, fredo no fà.

Se’l tona el dì de San Duane, le cuche va sbuse e le nosèle vane. (24/6)

Semo tuti fradei in Cristo, ma no in pignata.

Senpre stenta chi no se contenta.

Senza ojo el lume se stua.

Senza schei no se spende, senza laoro se dipende.

Senza spie no ce ciapa ladri.

Senza stola no se confessa, senza schei no se canta messa.

Sete òmani no mena drento col caro quanto che na fémena la porta fora co la traversa.

Sfogo de pele, salute de buele.

Sia da cavalo che da mulo sta tri passi lontan dal culo.

Signore, fà ca no sia beco; se ghe so’, fà ca no lo sapia; se lo sò, fà ca no ghe bada.

Sola boca dela zente se ghe riva fassilmente.

Sola vita de on omo che’l sia on omo ghe xe senpre almanco na ostaria.

Sole de vero porta al zimitero.

Sole de vero e aria de fessura porta ala sepoltura.

Soto la neve, pan; soto l’aqua, paltan.

Spendi la moneda par quelo che la vale.

Stajon de erba, stajon de merda.

Starna setenbrina, una la sera e una la matina.

Stele fisse ciama piova.

Stimar la roba in erba l’è on stimar de merda.

Stropa longa, inverno longo; stropa curta, inverno curto.

Suòre de stradin e grasso de mussolin guarisse tuti i mali.

Suta de Agosto, tonpesta de Majo.

Svodà la scudela, tuti ghe spua dentro.

 

T

 

Tacà a on ciodo, ma vivo.

Tajo largo, sega streta.

Tante nosèle, tanta neve.

Tanti can mazza on lovo e on solo can baja a la luna.

Tanti paìsi e tante usanze, tante teste e tante panze.

Tanto toca a chi roba come a chi che tien el saco.

Tanto xe marcante quelo che guadagna che quelo che perde.

Tenca de Majo e luzo de Setenbre.

Tèndare le tose e bàtare le nose xe tenpo perso.

Tenpo e paja fà fare i néspoli.

Tenpo, done e siuri i fà come che i vole luri.

Tera negra fà bon fruto, tera bianca guasta tuto.

Testa de musso no se pela mai.

Tien on ocio al pesse e ‘nantro al gato.

Tira depì on pelo de mona che on paro de buò.

Togno fà la roba, el sior Toni la gode, el conte Antonio la magna.

Tore el ben quando el vien.

Toso tanto studiso, toso poco amoroso.

Tra arte e busia se vende la marcanzia.

Tra i pessi on bel ronbeto, tra i quadrupedi el porcheto.

Tra i poariti se lega, tra i siuri se se frega.

Tra verità e busìa se vende la marcanzia.

Tre burane fà na piova.

Tre cosse ghe vol par farse siori: o robar, o trovar, o ereditar.

Tre fémene? Una viva, una morta, una inpiturìa de drio la porta.

Tre volte bon fà mona

Tri ani dura on sieve, tri sieve dura on can, tri can dura on cavalo.

Tri calighi fà na piova, tre piove na brentana e tri festini na putana.

Tri mussi e on vilan fà quatro bestie.

Tripe de merda parché l’osto no ghe perda.

Trista chela bestia che no para via le mosche co’ la so coa.

Tronba de culo, sanità de corpo.

Troti de musso e salti de vecio dura poco.

Tute le robe storte le fà drite la morte.

Tute le scarpe no va ben ‘ntel stesso piè

Tuti ga el so toco de invidia.

Tuti ga la so ora de mona.

Tuti gode a védare i mati in piazza, pur che no i sia dela so razza.

Tuti i mati no ronpe i piati.

Tuti i mistieri fà le spese.

Tuti i ossi torna al so logo.

Tuti i stronzi fuma.

Tuti nasse pianzendo, nissun more ridendo.

Tuti quanti semo mati par chel buso ca semo nati.

Tuti semo fioi de Adamo.

Tuti va al molin col so saco.

Tuto finisse, via che l’invidia.

Tuto ga fine.

Tuto se justa, fora che l’osso del colo.

Tuto va e vien e gnente se mantien.

 

U

 

Uno no fà canpion.

Uno roba la polpa e ‘staltro ciapa la colpa.

 

V

 

Va’ in leto co le galine e lèvate quando che canta el galo.

Vale depì na candela davanti che on candeloto de drio.

Vale depì on gran de pévaro che on stronzo de musso.

Vale depì on no co creanza che on sì vilan.

Vale depì on’ora de alegria che zento de malinconia.

Vale depì uno a fare che zento a comandare.

Vardarse da quei che parla coi oci bassi e da quei che ride senpre.

Vàrdate da l’omo che porta el recin e dala dona che sa de latin.

Vàrdate da prete, contadin, da comare vizin e da aqua par confin.

Vàrdate dal culo del mulo, dal dente del can e da chi che tien la corona in man.

Vàrdate dala bubana.

Vàrdate dala volpe e dal tasso e da chi che varda in basso.

Vedendo uno te lo conossi mezo, co’ ‘l parla te lo conossi tuto.

Veleta e capelo fà el viso belo.

Vento che sùbia e fogo de paja sbala presto.

Vento de Majo, poco tormento.

Vesti na fassina e la pare na regina.

Via el dente, via el dolore.

Vin de fiasco: ala sera bon, ala matina guasto.

Vin novo, braghe leste.

Vin vecio e dona zòvane.

Vin, done e maroni bisogna gòdarli so’ la so stajon.

Vinti munari, vinti sartori e vinti osti fà sessanta ladri.

Viso belo pare bon co qualunque capelo.

Viva el caro parente, ma guai se no’l ga assà gnente.

Voja o no voja, Pasqua fà foja.

Volta i cai dopo na piova.

Voltà el canton, passà la passion.

Vòltate indrio e te ghe ne vedarè de pezo.

 

X

Xe inutile cargare el s’ciopo senza balini.

Xe inutile fermare el treno col culo.

Xe mejo ‘vere el capelo a busi che le scarpe a tochi.

Xe mejo avere sete busi in testa che sete piati de minestra.

Xe mèjo cavarse on ocio che magnare el vermo del fenocio.

Xe mèjo èssare bechi e ver da becare che no èssare bechi e no ver da magnare.

Xe mèjo fruare scarpe che nezuoi.

Xe mejo ‘ndare in paradiso strazà che al’inferno co l’abito ricamà.

Xe mèjo on “to” che zento “te darò”.

Xe mèjo on mòcolo che ‘ndare in leto al scuro.

Xe mèjo oselo de bosco che de gabia.

Xe mèjo polenta in casa soa che rosto in casa di’ altri.

Xe mèjo sbrissare co’ i piè che co la lengua.

Xe mèjo suàre che tossire.

Xe on bravo can el can che furfa par elo.

Xe par la boca che se scalda el forno.

Xe pì fadiga far la guardia a na fémena che a on saco de polde

Xe pì fadiga tasére che parlare.

Xe pì le done che varda i òmani che le stele che varda la tera.

 

Z

 

Zapa sposa baile.

Zena longa, vita curta; zena curta, vita longa.

Zercio de luna, se no piove piovesina.

Zuca santa che la canta e baruca che la sia muta.

Zuche e fen int’on mese i vien.
Fonte: lista di proverbi curata da Renato Trevisan, da LINGUA VENETA
Link: http://www.linguaveneta.it/proverbi.asp

PROVERBI VENETI SUDDIVISI PER ARTE E PARTE

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AFARI: I PROVERBI AL SERVIZIO D’I AFARI

 

A far credenza se perde l’aventore.

A l’amo se ciapa el pesse, i òmani a l’intaresse.

A l’astuzia del munaro no gh’è mai nissun riparo.

A morire e a pagare se fa senpre tenpo.

Al ciaro de na candela no se stima né dona né tela.

Avere debiti e no pagarli xe come no averghene.

Basta na fontana a far dano a on’ostaria.

Bisogna fare la spesa secondo l’entrata.

Bon marcà sbrega la borsa.

Cavalo in prìstio no xe mai straco e no ga mai fame.

Chi che dispreza conpra.

Chi che ga paura del diavolo no fà schei.

Chi che paga avanti el trato, servizio mal fato.

Chi dà via el fato soo prima che’l mora, el merita la morte co la mazola.

Chi gira leca, chi sta a casa se seca.

Chi inpresta perde el mànego e anca la zesta.

Chi leze el cartelo no magna vedèlo.

Chi no se contenta de l’onesto, perde el mànego e anca el zesto.

Chi no tien conto de on scheo, no vale on scheo.

Chi pì spende manco spende.

Chi stima no conpra.

Chi va a Roma e porta on borsoto, deventa abate o vescovo de  boto.

Chi vol vèndare mete in mostra.

Co’ canta le zigàle de Setenbre no conprare gran.

Co’ no ghe n’è, spèndarne; co’ ghe n’è tegner da conto.

Co’ piase la roba no se varda la spesa.

Co’ se barata, uno ride e staltro se grata.

Co’ se ga da pagare se cata tuti, co’ se ga da tirare no se cata nissuni.

Co’l gran se incurva el contadin se indriza.

Conpra poco e guadagna tanto.

Da tristi pagadori se tole ogni moneda.

Debito sputanà, debito pagà.

Dotori e preti no dà mai gnente a nissun.

Dove no ghe xe da guadagnare ghe xe da pèrdare.

El pèrdare xe parente del piànzare.

El prezo no lo fà l’aventore.

El prezo sgualiva tuto.

El rosso xe par l’avocato, la ciara par le spese e la scorza par chi che vinze.

Fato ben o fato male, dopo el trato se beve el bocale.

Fin che i barufanti tira la vaca uno pa’ i corni e staltro par la coa, l’avocato monze.

La roba bona no la resta in botega.

La roba bona no la xe mai cara.

La roba in mostra xe quela che no se vende.

La roba ordenà la vol èssare pagà.

Mejo on magro acordo che na grassa sentenza.

No ghe xe carne in becaria che presto o tardi no la vaga via.

Omo vivo pagarà, omo morto ga pagà.

On bel ciapare fà on bel spèndare.

On bon vèndare fà on bon guadagno.

Pesa justo e vendi caro.

Primo sparagno, primo guadagno.

Roba rara, roba cara.

Se piove a Pentecoste, tute le entrate no le xe nostre.

Stimar la roba in erba l’è on stimar de merda.

Tanto xe marcante quelo che guadagna che quelo che perde.

Tra i poariti se lega, tra i siuri se se frega.

Tra verità e busìa se vende la marcanzia.

 

Numero Proverbi: 57

 

AMORE: L’AMORE DALA PARTE DEL PROVERBIO

 

A voler ben a ‘na bela xe pecà, a ‘na bruta xe carità.

Amare e no éssare amà, xe come forbirse el culo senza vere cagà.

Amarse, ma no buzararse.

Amore de soldà, oncuò qua, doman là.

Amore fa amore, cativeria fa cativeria

Amore, merda e zéndare le xe tre robe tèndare.

Amore senza barufa fà la mufa.

Amore, tosse e panza no se sconde.

Assa che la mojère la comanda in casa: solo cussì la te struca e la te basa.

Baso no fa buso, ma xe scala par andar suso.

Baso par forza no vale na scorza.

Chi che zerca cavalo e fémena senza difeto, no’l gavarà mai cavalo in stala e fémena in leto.

Chi ciama Dio no xe contento, chi ciama el diavolo xe disperà, chi dise ahimè xe inamorà.

Chi pì ama pì bastona.

Chi vole el pomo sbassa la rama, chi vole la tosa careza la mama.

Co’ la fame vien drento par la porta, l’amore va fora pa’l balcon.

Dona bela e vin bon xe i primi che te assa in abandon.

Dove che ghe xe tose inamorà, xe inutile tegnere le porte sarà.

In amore nasse corajo se te magni del formajo.

L’amore del vecio sa da scaldaleto.

L’amore fà passare el tenpo, e ‘l tenpo fà passare l’amore.

L’amore no ciapa rùzene.

L’amore no xe fato solo de amore.

L’amore vecio no fà mai la mufa.

L’amore xe potente, ma l’oro onipotente.

La bona mojère fà el bon marìo.

Le bele par dileto, le brute par dispeto.

Magari polenta e pessin, ma na bela testa sol cussin.

Oci mori, rubacuori; oci bisi, paradisi; oci celeste fà inamorare; oci bianchi fà cagare.

Ocio celeste, ocio de dama; ocio moro, ocio da putana.

Ocio no vede, cuore no sente.

On baso, na forbìa: el baso xe nda via.

Par amore no se sente rason.

Piova o sole, le strighe va in amore.

Polenta senza sale, ma on bel viseto sol cavazale.

Quando che piove col sole le strighe fà l’amore.

Quando el merlo canta d’amore Febraro finisse.

Salute,amore, schei e tenpo par gòdarli.

Toso tanto studioso, toso poco amoroso.

Voltà el canton, passà la passion

 

Numero Proverbi: 40

 

AQUA: AQUA E TORNO VIA

 

A chi che no ghe piase el vin , che Dio ghe toga anca l’aqua.

A le prime aque de Agosto la tortora la va via.

A lavarghe la testa al molton, se consuma l’aqua e anca el saon.

Ala prima aqua de Agosto, pitoco te conosso.

Aqua che core no porta odore.

Aqua de Agosto, miele e mosto.

Aqua de Aprile, fromento sol barile.

Aqua passà no masena pì.

Aqua setenbrina, velen par la cantina.

Aqua turbia no fa specio

Bivi el vin e lassa l’aqua al mulin.

Bon come l’aqua de Lujo.

Chi che ghe fà la barba al musso perde l’aqua e anca el saon.

Co’ canta el galo sola rosà, core l’aqua par la carezà.

Co’l mulin xe senza aqua me toca bévare aqua; co’ l’aqua fà ‘ndare el mulin bevo del bon vin.

El pèrsego col vin, el figo co l’aqua.

El pesse ga da noare tre volte: prima intel’aqua, dopo intel’ojo e la terza ‘ntel vin.

El pesse guasta l’aqua, la carne la conza.

El riso nasse da l’aqua e ‘l ga da morire sol vin.

El sangue no xe aqua.

Giugno, Lujo e Agosto, né dona, né aqua, né mosto.

L’aqua de Giugno ruina el munaro.

L’aqua de Majo ingrassa el formento.

L’aqua de San Gaetano la tole l’afano.(7/8)

L’aqua de San Giacomo la fà miracoli.

L’aqua de San Gregorio fà ranpegare la végna.

L’aqua de San Joani guarisse tuti i malani.

L’aqua morta fà spuza.

L’aqua ronpe dove che no se crede.

L’aqua smarzisse i pali.

La fémena xe come l’aqua santa: tanto fà poca come tanta.

Le zuche vode le sta sora l’aqua.

Merda e aqua santa fà la racolta tanta.

Na bona aqua de Febraro vale pì de on loamaro.

On mulin in aqua e uno in casa.

Quando che l’aqua toca el culo tuti inpara a noare.

Se no te me vidi de San Giusepe patriarca, o che son perso o che son in aqua. (19/3)

Se piove ai quaranta Santi, aqua par altretanti.

Soto la neve, pan; soto l’aqua, paltan.

Vàrdate da prete, contadin, da comare vizin e da aqua par confin.

 

Numero Proverbi: 40

 

BESTIE: EL POSTO DELE BESTIE IN MEZO AI PROVERBI

 

A ‘la Madona del Rosario el pitaro* de passajo.(6/10) *(petirosso)

A ‘la Madona i pitari ne sbandona.

A ‘la Madona le quaie ne sbandona.

Ai can magri ghe va drio le mosche.

A l’amo se ciapa el pesse, i òmani a l’intaresse.

A l’osèlo ingordo ghe crepa el gosso.

A le prime aque de Agosto la tortora la va via.

A lavarghe la testa al molton, se consuma l’aqua e anca el saon.

A magnare el zervelo del pesse se deventa intelijente.

A San Benedìo le ròndene torna indrio.(21/3)

A San Francesco i tordi i va de furia.(4/10)

A San Gorgon passa la lòdola e ‘l lodolon.(9/9)

A San Luca le lòdole se speluca.(18/10)

A San Roco le quaie le va de troto.

A San Simon le lòdole a valon.(28/10)

A San Valentin el giazo no tien gnanca pì on gardelin.(14/2)

A Sant’Ana el rondon se slontana.(26/7)

A Santa Toscana i rondoni se slontana.(14/7)

Ai Morti e ai Santi i corvi sbandona i monti e i vien a pascolare ai canpi.

Ai ultimi de Setenbre, i fringuei par la tesa.

Al cao de là fa la pitona.

Al mese de Jenaro la gata va in gataro.

Al primo de Agosto l’ànara se mote a ‘rosto.

Ala de capon, culo de castron e tete de massara xe na roba rara.

Ala sera tuti buò, ala matina tute vache.

Anca na bruta sìmia pole fare on bel salto.

Bacalà a ‘la visentina, bon se sera e de matina.

Barbi e rane mai de Majo, parché i fa tristo passajo.

Beato l’Istà co tuti i pulzi e i zìmesi che’l ga.

Bela coa, trista cavala.

Bisogna tacare el musso dove che vole el paron.

Can che baja no mòrsega.

Can no magna can.

Canpa, cavalo, che l’erba cresse.

Carne de vaca e legno de figaro par far bela ziera al’amigo caro.

Caval bianco e bela mojèr dà senpre pensièr.

Caval, putana e persegar trent’ani no i pol durar.

Cavalo in prìstio no xe mai straco e no ga mai fame.

Cavalo vecio e servo cojon no inbroja el paron.

Chi che bastona el so cavalo bastona la so scarsela.

Chi che careza el mulo ciapa peàde.

Chi che ga le zuche no ga i porzei.

Chi che ga na vacheta ga na botegheta.

Chi che ga solo on porzelo lo ga belo, chi ga solo on tosato  lo ga mato.

Chi che ghe fà la barba al musso perde l’aqua e anca el saon.

Chi che zerca cavalo e fémena senza difeto, no’l gavarà mai cavalo in stala e fémena in leto.

Chi co done va e mussi mena, i crede de rivare a disnare e no i riva gnanca a zena.

Chi da galina nasse, da galina ruspa.

Chi leze el cartelo no magna vedèlo.

Chi no ghe piase galina col pien, merita pache opure velen.

Chi piègora se fà el lupo se lo magna.

Chi sparagna el gato magna.

Chi vol magnare on bon bocon, magna l’oca col scoton.

Chi vol stare san pissa spesso come on can.

Chi vole el can se lo ciapa par la coa.

Co la caveza se liga i cavai, co la parola i òmani.

Co’ canta el ciò xe finio de far filò.

Co’ canta el galo sola rosà, core l’aqua par la carezà.

Co’ canta le zigàle de Setenbre no conprare gran.

Co’ ghe n’è massa le cioche se beca.

Co’ la vaca tien su el muso, bruto tenpo salta suso.

Co’ se xe mussi ala matina se lo xe anca ala sera.

Co’ te nassi scarognà, te scanpi dal musso e la vaca te tra.

Co’ te senti le racolete xe rivà la Primavera.

Co’ toneza de Jenaro chi ga quatro vache se ne magna on paro.

Co’l galo canta da galina, la casa va i ruina.

Co’l galo canta so la zena, se no xe belo se serena.

Co’l lovo* deventa vecio i can ghe pissa incoste. *(lupo)

Co’l sole tramonta i àseni se ponta.

Co’l sorze scanpa, la gata va al paese.

Col pan se fà balare i can.

Da on musso no se pole spetarse che peade.

Da San tin tuto, el pesse mena el coìn.

Dai a chel can che’l xe rabioso.

De drio d’i s-ciopi, d’i cavai davanti e distante dai mati.

De Febraro ogni gata va in gataro.

De istà ogni beco fà late, de inverno gnanca le bone vache.

De la Sensa le granseole fà partensa.

De note tute le vache xe more.

De Pasqua no ghe xe galina che no faza.

De pesse scanpà no se ne ga mai magnà.

Del pito el passo, del polo el volo.

Dime ludro, dime can, ma no dirme furlan.

Done, cani e bacalà no i xe boni se no i xe pestà.

Dove che comanda le done e ara le vache, se vede solo robe mal fate.

Dove che manca i cavai anca i mussi trota.

El bòvolo xe on pasto fin: bon par el vecio, bon par el putin.

El can de du paruni more de fame.

El capon xe senpre de stajon.

El gato sol fogolaro xe segno de miseria.

El loame de cavalo el fruta on ano e no sò qualo.

El male riva a cavalo e ‘l parte a piè.

El musso, co’l ga magnà el volta el culo ala grupia.

El naso d’i gati, i zenoci d’i òmani e ‘l culo dele fémene xe senpre fridi.

El paron xe el ragno, el contadin la mosca.

El pesse ga da noare noare tre volte: prima ‘ntel’aqua, dopo ‘ntel’ojo e la terza ‘ntel vin.

El pòvaro omo no fa mai ben: se more la vaca ghe vanza el fen, se la vaca scanpa e l fen ghe manca.

Fare i mistieri che no se conosse i dìnari i deventa mosche.

Fin che i barufanti tira la vaca uno pa’ i corni e staltro par la coa, l’avocato monze.

Galina vecia fà bon brodo.

Gato sarà deventa leon.

I cojuni del can e i schei del vilan i xe i primi mostrà.

I nostri veci ga magnà i capuni e i ne ga assà i proverbi.

In istà la vache va in montagna a fare le siore, e le siore va in montagna a fare le vache.

I òmani ala guera e le vache in montagna no se garantisse.

I primi capuni fà la coa bela.

I schei fà balare i sorzi.

I schei porta l’oca al paron.

L’arcobaleno ala matina bagna el beco ala galina.

L’avaro xe come el porco, che no’l xe bon che dopo morto.

L’ocio del paron ingrassa le bestie.

L’orto xe mezo porco.

L’ospite xe come el pesse: dopo tri dì el taca a spuzare.

L’ultimo ovo xe quelo che scoraja el musso.

La boca no xe straca se prima no la sa de vaca.

La coa massa longa xe quela che copa la volpe.

La morte del lovo xe la salute dele piègore.

La note xe fata pa’ i alochi.

La panza d’i preti xe el zimitero d’i capuni.

La parola liga l’omo, la corda el musso.

La piègora xe benedeta dal culo e maledeta dala boca.

La prima galina che canta ga fato l’ovo.

La testa del barbon xe el mejo bocon.

La vita xe come na scala par le galine: curta (drita) e piena de merde.

La zaresa pi bona la xe quela del merlo.

Le bestie se trata da bestie.

Le galine che va par cà, se no lebeca le ga becà.

Le mosche le va drio ai cavai magri.

Le ràcole ciama piova.

Le vache pissa, i manzi sbrissa e i bo’ veci xe quei che tira.

Libri, done e cavai no se inpresta mai.

Loame de porco no loama né canpo, né orto.

Magari polenta e pessin, ma na bela testa sol cussin.

Magnà i gànbari se ciucia anca le zate.

Magna la lana, ma salva la piégora.

Magna renghe e sardeluni: te conservarè i polmuni.

Marcante e porco stimalo dopo morto.

Marsoni friti e polentina, on fià de vézena e vin de spina.

Marzo el se fà vanti, el merlo el fà noze coi so canti.

Marzo sventolon, more la piègora e anca el molton.

Marzo, par quanto tristo che’l sia, el buò al’erba e ‘l cavalo al’onbrìa.

Mèjo on àseno vivo che on dotore morto.

Mèjo on ovo oncuò che na galina doman.

Mèjo on sorze in boca a on gato che on omo par le man de on avocato.

Merlo in te’l camin trema el contadin.

Mese de Agosto, colonbo rosto.

Na pena ala volta se pela l’oca.

Na serenada de note dura fin che on can fà le balote.

Na volta core el lièvore, na volta core el can.

Nela luna setenbrina la sardela se rafina.

No ghe xe gnente de pì bon che el colo del capon.

No se dise vaca mora se no ghe n’è on pelo.

No se pole far cagare i mussi par forza.

No tocare can che ròsega e zugadore che perde.

No xe colpa dela gata se la parona la xe mata.

Nose e pan, magnare da can.

Ogni can mena la coa, ogni mona vol dire la soa.

Ogni osèlo no conosse el bon gran.

Ogni mosca la fa la so onbra.

On galo senza cresta xe on capon, on omo senza barba xe on cojon.

On lièvore fra du can, on contadin fra du avocati, on malà fra du doturi: chi sta pèzo de luri!

On ocio ala gata e staltro ala paèla.

On omo in man del’avocato xe come on sorze in boca al gato.

Osèlo de s-ciapo no xe mai grasso.

Par l’Anunziata el rossignolo so la saca.

Pesse grosso magna pesse picolo.

Pitosto che le tarme la magna, xe mejo che i osei la bècola.

Polenta nova e osei de riva, vin de grota e zente viva.

Porco ingrassà no xe mai contento.

Prima de parlare bisogna fare come el galo, che prima de cantare el sbate tre volte le ale.

Putei e colunbi insmerda la casa.

Quando a Novenbre el vin no xe pì mosto, la pitona xe pronta  par el ‘rosto.

Quando canta le grole* ghemo burasca par tri dì.

Quando ch’el gato dorme i sorzi bala.

Quando che manca el gran le galine se beca.

Quando che manca i cavai i mussi trota.

Quando che’l galo canta zo de ora, doman no xe pì el tenpo de ‘sta ora.

Quando che’l Signore vuole castigare uno el ghe manda l’ispirazion o de sposarse, o de torse on musso o on’ostaria.

Quando el merlo canta d’amore Febraro finisse.

Quando la ràcola canta, piova tanta.

Quando le nuvole vien dal mare, ciapa i buò e va a arare; quando le nuvole vien dal monte ciapa  i buò e va ala corte.

Quando se vede la raìna se no piove oncuò piove domatina.

Quatro a on segon, du a on capon.

Rispeta el can par el so paron.

Sant’Antonio se ga inamorà de on porzeleto.

Santa Poinara, la vecia (galina) sora la caponara.

Se ‘l dì de San Martin el sole se insaca, vendi el pan e tote la vaca; Se ‘l va zo seren, vendi la vaca e tiente el fen.(11/11)

Se ciapa pì mosche co na joza de miele che co na bota de aseo.

Se la galina tasesse, nissun savarìa che la ga fato l’ovo.

Se Nadale vien senza luna, chi ga do vache se ne magna una.

Se piove sui cavajuni, bondanza de galine e ovi.

Sia da cavalo che da mulo sta tri passi lontan dal culo.

Suòre de stradin e grasso de mussolin guarisse tuti i mali.

Tanti can mazza on lovo* e on solo can baja a la luna.      *( lupo)

Testa de musso no se pela mai.

Tien on ocio al pesse  e ‘nantro al gato.

Tira depì on pelo de mona che on paro de buò.

Tra i pessi on bel ronbeto, tra i quadrupedi el porcheto.

Tri ani dura on sieve *, tri sieve dura on can, tri can dura  on cavalo.

Tri mussi e on vilan fà quatro bestie.

Trista chela bestia che no para via le mosche co’ la so coa.

Troti de musso e salti de vecio dura poco.

Va’ in leto co le galine e lèvate quando che canta el galo.

Vale depì on gran de pévaro che on stronzo de musso.

Vàrdate dal culo del mulo, dal dente del can e da chi che tien la corona in man.

Vàrdate dala volpe e dal tasso e da chi che varda in basso.

Xe mèjo on musso vivo che on dotore morto.

Xe on bravo can el can che furfa par elo.

Xe pì fadiga far la guardia a na fémena che a on saco de polde

 

Numero Proverbi: 209

 

CAN: PROVERBI PAR …L’AMIGO

 

Ai can magri ghe va drio le mosche.

Can che baja no mòrsega.

Can no magna can.

Chi vol stare san pissa spesso come on can.

Chi vole el can se lo ciapa par la coa.

Co’ ‘l lovo deventa vecio i can ghe pissa incoste.

Col pan se fà balare i can.

Daighe a chel can che’l xe rabioso.

Dime ludro, dime can, ma no dirme furlan.

Done, cani e bacalà no i xe boni se no i xe pestà.

El can de du paruni more de fame.

I cojuni del can e i schei del vilan i xe i primi mostrà.

Na serenada de note dura fin che on can fà le balote.

Na volta core el lièvore, na volta core el can.

No tocare can che ròsega e zugadore che perde.

Nose e pan, magnare da can.

Ogni can mena la coa, ogni mona vol dire la soa.

On lièvore fra du can, on contadin fra du avocati, on malà fra du doturi: chi sta pèzo de luri!

Tanti can mazza on lovo* e on solo can baja a la luna.    *( lupo)

Tri ani dura on sieve *, tri sieve dura on can, tri can dura  on cavalo.    * (siepe)

Xe on bravo can el can che furfa par elo.

 

Numero Proverbi: 21

 

CAMPI: I PROVERBI XE NATI IN CANPAGNA!

 

A chi che no vole far fadighe, el teren ghe produse ortighe.

A la botega, vaghe; a la canpagna, staghe.

A la luna de Setenbre la ua e el figo pende.

A San Baldoin se fa el vin.

A San Benedeto la vegna su par el paleto.

A San Bernardin fiorisse el lin. (20/5)

A San Bonaventura el medare* l’è finio in pianura. (15/7)        * (mietitura)

A San Bovo se ronpe el primo ovo. (2/1)

A San Crispin se pesta el vin.(25/10)

A San Firmin, sòmena el contadin. (11/10)

A San Martin casca le foje e se beve el bon vin.

A San Martin el mosto deventa vin.

A San Martin se spina el bon vin.

A San Pelegrin, poca paja e poco vin. (5/5)

A San Roco le nose le va in scroco.(16/8)

A San Simon se cava la rava e ‘l ravanon.(28/10)

A San Vio le zarese le ga el marìo.

A San Zen, somenza in sen.(12/4)

A Sant’Ana le nose va in tana.

A Sant’Erman le arte* in man. (8/2)         * (attrezzi da lavoro)

A Sant’Isaco, el formento fora dal saco.(19/10)

A Sant’Urban el formento el fa el gran.

A Santa ‘Fema, se scumizia la vendema.(s. Eufemia, 16/9)

A Santa Crose, pan e nose.(14/9)

A Santa Fiorenza xe oncora bona la somenza. (27/10)

A Santa Madalena la nosa xe piena.(22/7)

A Santa Madalena se taja l’avena.

A Santa Pologna la tera perde la rogna. (9/2)

A Santa Toscana el riso el va in cana. (14/7)

A Setenbre se destaca tuto quel che pende.

A somenare col vento se perde la somenza.

Agosto conpisse, Setenbre madurisse.

Agosto madura, Setenbre vendema.

Ai Morti e ai Santi i corvi sbandona i monti e i vien a pascolare ai canpi.

Aprile la spiga, Majo el late, Giugno el gran.

Aprile sparesin, Majo saresin.

Aprile tenperà e Majo suto, formento dapartuto.

Aqua de Agosto, miele e mosto.

Aqua de Aprile, fromento sol barile.

Aqua setenbrina, velen par la cantina.

Ara tanto e sòmena poco.

Bon come l’aqua de Lujo.

Canpo pestà no produse erba.

Cao curto vendema longa.

Cava erba e miti merda.

Chi ara fondo guadagna on mondo.

Chi che ga na vacheta ga na botegheta.

Chi che pianta de Aprile cava de Majo.

Chi desfa bosco e desfa pra se fà dano e no lo sa.

Chi dòpara loame no ga mai fame.

Chi ga canpi canpa.

Chi vol fare mosto zapa la tera de Agosto.

Chi vole on bel ajàro lo pianta de Zenàro.

Co’ canta el ciò xe finio de far filò.

Co’ canta el galo sola rosà, core l’aqua par la carezà.

Co’ canta le zigàle de Setenbre no conprare gran.

Co’ riva le Madone tute le zuche le xe bone.

Co’ te nassi scarognà, te scanpi dal musso e la vaca te tra.

Co’ xe soleselo ghe n’emo on brazelo.

Co’l fromento tra a l’anguro, tàjelo che’l xe maduro.

Co’l gran se incurva el contadin se indriza.

Da la Befana la rapa xe vana.

Da San Giorgio se sòmena l’orzo. (23/4)

Da San Marco la vigna buta l’arco.(25/4)

Da San Matio ogni fruto xe bonio.

Da San Valentin guerna l’ortesin. (14/2)

De Giugno miti la messora* in pugno.           * (falce)

De San Luca pianta la rapa e cava la zuca.

De San Piero el formento e anca el pero.

De Sant’Antonio el formento indora.

De Sant’Urban la segala conpisse el gran.

De Santa Giustina tuta la ua xe marzemina.

Del Pardon (d’Assisi) se trà la zapa in t’on canton.

Dopo la crose na pèrtega par le nose.

Dove che comada le done e ara le vache, se vede robe mal fate.

Dove che ghe xe canpagne ghe xe putane.

Dura depì i loamari che i pajari.

El loame de cavalo el fruta on ano e no sò qualo.

El primo de Aprile, miti le zuche che le vien come on barile.

Fevraro curto, erba da par tuto.

Fin dai Santi sómena i canpi.

Fongo de Majo, spighe de Agosto.

Formento butà, paron in piè.

Gran fredo de Jenaro se incolma el granaro.

I canpi no vien mai veci.

I nostri veci ga magnà i canpi e i ne ga assà i proverbi.

Incalmà in onore de San Francesco, se no’l taca de verde el taca de seco.

Jenaro co la pòlvare, granaro de róare.

Jenaro suto, gran dapartuto.

L’ajo el xe la farmacia del vilan.

L’ajo guarisse el tajo.

L’aqua de Majo ingrassa el formento.

L’aqua de San Gregorio fà ranpegare la végna.

L’aria de Febraro xe come on loamaro.

L’orto xe mezo porco.

La boca la xe picola, ma la xe bona de magnare canpi e velada.

La piova de primavera ghe ronpe la rogna ala tera.

La piova de San Bernardin la roba pan, ojo e vin.

La pulizia va ben dapartuto, fora che in granaro.

La tera e i canpi li laora i ignoranti.

La tera xe mare e maregna.

Le canpane de San Martin vèrze le porte al vin.

Legna de fasso presto te vedo e presto te lasso.

Loame de porco no loama né canpo, né orto.

Loame, rivai e cavedagne, benedission dele canpagne.

Lujo in tana, se piove la xe na mana.

Majo fresco e ventoso fà l’ano copioso.

Majo fresco, fava e formento.

Majo fresco, paja e formento.

Majo ortolan, tanta paja e poco gran.

Majo piovoso, vin costoso.

Majo suto, gran dapartuto.

Marzo spolvarento, poca paja e tanto formento.

Marzo suto e Aprile bagnà: beato chel contadin che ga somenà.

Marzo sventolaro fromento in granaro.

Marzo sventolon, more la piègora e anca el molton.

Mèjo paron de on canpo che fituale de na canpagna.

Merda e aqua santa fà la racolta tanta.

Na bona aqua de Febraro vale pì de on loamaro.

Né zarese, né galete in granaro no se mete.

Neve de Jenaro inpina el granaro.

Nuvole in montagna no bagna la canpagna.

Par el seco xe bona anca la tenpesta.

Par i Santi, neve sui canpi; par i Morti, neve sui orti.

Par l’Anunziata la zuca xe nata.

Par San Domin sómena el contadin.

Par San Gioachin, l’ortolan nel camarin.

Par San Lorenzo la nosa xe fata.

Par Sant’Antonin, poca paja e poco vin.

Par Santa Cristina se sòmena la sajina.

Par Santa Fiorenza xe oncora bona la somenza.

Par Santa Pologna la tera la perde la rogna.

Par Santa Taresa prepara la tesa.

Pasqua vegna quando se voia, la vien co la frasca e co la foia.

Piova de Zenàro, erba de Febraro.

Pólvare de. Zenàro la inpina el granaro.

Quando che’l sorgo rosso el mostra el muso, xe ora de tore la roca e el fuso.

Quando la canavera fà el penacio, tanta neve e tanto jazzo.

Quando le nuvole va in montagna, ciapa la zapa e va in canpagna.

Quando se travasa se beve.

Quando xe ciara la marina, magna, bivi e va in cusina.

Quando xe ciara la montagna, magna, bivi e va in canpagna.

Quel che Lujo no vole, Setenbre no pole.

Ramo curto vendema longa.

San Paolo ciaro inpinisse el granaro. (25/1)

San Paolo San Paolon, tote su la scala e va a bruscare el vegnon.

San Valentin dal fredo fin, l’erba la mete el dentin.(14/2)

Sant’Antonin el vien lezièro: ormai semo ale asse sia in stala che in granaro. (10/5)

Sant’Antonio del paneto el vien col segheto. (13/6)

Schei, poderi e canpi e na bela coa davanti.

Se ‘l dì de San Martin el sole se insaca, vendi el pan e tote la vaca; Se ‘l va zo seren, vendi la vaca e tiente el fen.(11/11)

Se el primo tenporale el se sente a vale, bon ano senza tonpesta; se da monte a matina,  on ano de ruina; se tona a mezodì o sera, bon ano se spera; se ‘l primo ton vien dal mantovan, vale pi el saco del pan.

Se fà belo a San Gorgon la vendema va benon.

Se Febraro no verdéga in Aprile no se sega.

Se Giugno sguaza poco vin in taza.

Se la luna fa on gran ciaro, poco fromento e tanto pajaro.

Se la luna xe in colore el canego more.

Se Majo fà fresco va ben la fava e anca el formento.

Se Majo rasserena, ogni spiga sarà piena.Se Marzo buta erba Aprile buta merda.

Se Marzo no incodega, a Majo no se sega.

Se Marzo resenta, fromento e polenta.

Se Nadale vien senza luna, chi ga do vache se ne magna una.

Se no piove so l’olivela piove so la brazadela.

Se par Setenbre no te ghe arà, tuto l’ano xe malandà.

Se piove a Pentecoste, tute le entrate no le xe nostre.

Se piove a San Bàrnaba la ua bianca la va via; se piove da matina a sera, va via la bianca e anca la nera. (11/6)

Se piove a San Giorgio ghe sarà carestia de fighi.(23/4)

Se piove a San Vito e Modesto, la ua va torla col zesto.(15/6)

Se piove a Sant’Ana, la xe na mana.

Se piove a Sant’Urban ogni spiga perde on gran.

Se piove a Santa Desiderata, casca la ua e resta la grata. (14/6)

Se piove ai primi de Majo, nose e fighi fà bon viajo.

Se piove da la Madona, la xe oncora bona.

Se piove de San Duane, fen e paja deventa loame.

Se piove par San Vio al vin còreghe drio.

Se piove sui cavajuni, bondanza de galine e ovi.

Soto la neve, pan; soto l’aqua, paltan.

Stajon de erba, stajon de merda.

Stimar la roba in erba l’è on stimar de merda.

Stropa longa, inverno longo; stropa curta, inverno curto.

Tenpo e paja fà fare i néspoli.

Tera negra fà bon fruto, tera bianca guasta tuto.

Uno no fà canpion.

Voja o no voja, Pasqua fà foja.

Zuche e fen int’on mese i vien.

 

Numero Proverbi: 185

 

CORPO: EL CORPO FATO A …TOCHI DAI PROVERBI

 

A chi carne de testa e a chi de colo.

A ogni culo el so cagare.

A San Nicòlo tira la neve sol colo.(6/12)

A sentarse so do careghe el culo se sbrega.

Anca l’ocio vole la so parte.

Bisogna avere oci anca sol culo.

Bisogna menare el dente conforme che uno se sente.

Boca onta no la pole dire de no.

Boca sarà no ciapa moschini.

Bon naso, fà bel’omo.

Chi che se marida de carnevale slonga le ganbe e scurza le bale.

Chi no ga testa ga ganbe.

Chi sbaglia de testa paga de scarsela.

Chi se taja el naso se insànguena la boca.

Chi vol fare el stronzo massa grosso ghe vien le làgreme ai oci.

Chi vole ‘ndare massa in suso, casca par tera e se ronpe el muso.

Co l’età, l’omo fa panza e la fémena fa stomego.

Co la panza piena se rajona mèjo.

Co’ bala l’ocio drito, cuor contrito; co’ bala l’ocio zanco,  cuore infranto.

Co’ i zenoci se ama le caece no se pol vèdare.

Co’ la carne xe frusta l’ànema deventa justa.

Co’ la oja la xe pronta le ganbe se fà liziere.

Corpo pien ànema consolà.

Dio te varda dal vermo del fenocio e da chi che ga on solo ocio.

Dopo i …anta ganbe che trèmola, tete che scanpa.

El naso gusta e la boca patisse.

El vilan xe largo de boca e streto de man.

Gnente, xe bon pa’i oci.

I morti verze i oci ai vivi.

I oci del spazacamin xe senpre bianchi.

L’onbra d’istà fà male ala panza d’inverno.

La boca e el culo xe fradei.

La boca la se liga solo ai sachi.

La boca la xe picola, ma la xe bona de magnare canpi e velada.

La boca no xe straca se prima no la sa de vaca.

La fémena xe come on falzin: batarla ogni tanto, guzarla senpre.

La lengua bate dove che’l dente duole.

La léngoa no ga osso, ma la pole rónpare i ossi.

La piègora xe benedeta dal culo e maledeta dala boca.

La roba che se buta via coi piè, vien dì che la se rancura co le man.

La roba donà fà male ala panza.

Le parole no inpinisse la panza.

Mal de testa vole magnare, mal de panza vole cagare.

Na man lava l’altra e tute do lava el muso.

Né a l’ocio, né a l’ongia no ghe vole gnente che sponcia.

Né na parola dita, né on naso tirà no torna indrio.

Né panza, né rogna, né tosse se sconde.

No fare el passo pì longo del ganba.

Oci e lengua xe le spie de tante malatie.

Oci mori, rubacuori; oci bisi, paradisi; oci celeste fà inamorare; oci bianchi fà cagare.

Ocio celeste, ocio de dama; ocio moro, ocio da putana.

Ocio no vede e boca tase par chi che vol vìvare in pase.

Ocio no vede, cuore no sente.

On baso, na forbìa: el baso xe nda via.

On ocio ala gata e staltro ala paèla.

Panza piena vole riposo.

Panza voda camisa tacà.

Par San Damàso el fredo al toca el naso.

Parenti mal de denti.

Pì in alto se va e pì se mostra el culo.

Pitosto che roba vanza, crepa panza.

Polenta brustolà la smorza el figà.

Quatro oci vede pì de du.

Rosso de pelo, zento diavoli par cavejo.

Se fà spira la man drita, schei da dare; se fà spira la man zanca, schei da tirare.

Tanti paìsi e tante usanze, tante teste e tante panze.

Testa de musso no se pela mai.

Tronba de culo, sanità de corpo.

Tute le scarpe no va ben ‘ntel stesso piè.

Tuto se justa, fora che l’osso del colo.

Vardarse da quei che parla coi oci bassi e da quei che ride senpre.

Veleta e capelo fà el viso belo.

Via el dente, via el dolore.

Xe inutile fermare el treno col culo.

Xe mejo avere sete busi in testa che sete piati de minestra.

Xe mèjo cavarse on ocio che magnare el vermo del fenocio.

Xe mèjo sbrissare co’ i piè che co la lengua.

Xe par la boca che se scalda el forno.

 

Numero Proverbi: 78

 

DOTTORI: I PROVERBI NO SE FIDA D’I DOTURI…

 

I proverbi no se fida d’i doturi…

Chi beve prima dela minestra, vede el mèdego dala finestra.

Chi vole stare san dai mèdeghi staga lontan.

Davanti al prete, al dotore e a on capitelo càvate senpre el  capelo.

Dotori e preti no dà mai gnente a nissun.

El mèdego pietoso fà la piaga verminosa.

Falo de mèdego, volontà de Dio.

Fin che’l mèdego pensa el malà muore.

Fra i doturi, in medesina, xe pì bravo chi indovina.

I fali, el médego li sconde la tera.

I mèdeghi e le patate ga i fruti soto tera.

L’amigo del prete perde la relijon, l’amigo del dotore perde la salute, l’amigo del’avocato perde la causa.

Mèdeghi e guera spopola la tera.

Mèdego vecio e chirurgo zòvane.

Mèjo on àseno vivo che on dotore morto.

On lièvore fra du can, on contadin fra du avocati, on malà fra du doturi: chi sta pèzo de luri!

Prete, dotore e comare, no te ne ingatejare.

Xe mèjo on musso vivo che on dotore morto.

 

Numero Proverbi: 17

 

FEMENE: Qua se parla de fémene

 

A ‘la Salute se veste le bele pute.(21/11)

Al ciaro de na candela no se stima né dona né tela.

Al son de la canpana (schei) ogni dona se fa putana.

Al vento e ale done no se comanda.

Ala de capon, culo de castron e tete de massara xe na roba rara.

Ala dona no se dise né bruta, né vecia.

Ale done, ai sassi e ai bissi, colpi ciari e fissi.

Assa che la mojère la comanda in casa: solo cussì la te struca e la te basa.

Beata chela sposa che la prima che la ga la sia na tosa.

Bela in fassa, bruta in piaza.

Bruta de muso, larga de buso.

Casa neta, dona regina.

Caval bianco e bela mojèr dà senpre pensièr.

Che la piasa, che la tasa e che la staga in casa.

Chi che ga na bela mojère no la xe tuta soa.

Chi che zerca cavalo e fémena senza difeto, no’l gavarà mai cavalo in stala e fémena in leto.

Chi co done va e mussi mena, i crede de rivare a disnare e no i riva gnanca a zena.

Chi dise dona dise dano.

Chi dise sposa dise spesa.

Chi vole el pomo sbassa la rama, chi vole la tosa careza la mama.

Co l’età, l’omo fa panza e la fémena fa stomego.

Co le done e co le merde se barufa e po’ se perde.

Co’ nasse na fémena, nasse na serva; co’ nasse on omo, nasse on paron.

Co’ parla na bela dona la ga senpre rason.

Co’l cavéjo tra al bianchin, assa la dona e tiente el vin.

Cusina che fuma, dona cativa e coverta rota manda l’omo in malora de troto.

De nose on saco, ma no pì de na fémena par casa.

Do fémene fà on marcà.

Dona bela e vin bon xe i primi che te assa in abandon.

Dona de mondo no ga mai fondo.

Dona e luna, ora serena ora bruna.

Dona nana, tuta tana.

Dona sconpagnà xe senpre mal vardà.

Done, cani e bacalà no i xe boni se no i xe pestà.

Done e afani scurza i ani.

Dove che comanda le done e ara le vache se vede robe mal fate.

El naso d’i gati, i zenoci d’i òmani e ‘l culo dele fémene xe senpre fridi.

El primo ano se ghe vole tanto ben che la se magnaria, el secondo se se ciama grami de no verla magnà.

El segreto dele femene no lo sa nissun, altro che mi, vu e tuto el comun.

Fà la corte ale vecie se te vo’ piasérghe ale zòvane.

Fin che na bela xe vardà, na bruta xe maridà.

Fumo e dona ciacolona fà scanpare l’omo de casa.

Ghe vole sete fémene par fare on testimonio.

Giugno, Lujo e Agosto, né dona, né aqua, né mosto.

I òmani ga i ani ch’i se sente, le done quei che le mostra.

In istà la vache va in montagna a fare le siore, e le siore va in montagna a fare le vache.

L’omo el tien su on canton dela casa, la fémena staltri tri.

L’omo fà la dona e la dona fà l’omo.

La bona mojère fà el bon marìo.

La dona xe come la castagna: bela de fora, dentro la magagna.

La dona va sojeta a quatro malatie al’ano e ogni una dura tri misi.

La fémena xe come l’aqua santa: tanto fà poca come tanta.

La fémena xe come on falzin: batarla ogni tanto, guzarla senpre.

La mojere xe come na scoreza: o ti ’a moli o ti ’a sòfeghi.

La prima fachina, la seconda regina.

La prima xe matrimonio, la seconda xe conpagnia, la terza na eresia.

Le done xe sante in cèsa, angeli in strada, diavoli in casa, zoéte sol balcon, gaze so la porta.

Le femene, co’ le se confessa le dise senpre quelo che no le ga fato.

Le fémene no sa de èssare sentà dessora ala so fortuna.

Le tose lo desidera, le maridà lo prova, le vedove lo ricorda.

Leto fato e fémena petenà, la casa xe destrigà.

Libri, done e cavai no se inpresta mai.

Lìssia e pan: dale done staghe lontan.

Mèjo na dona bela senza camisa che na bruta co sete camise.

Na dona stenta a dirghe bela a ‘nantra.

Na dona bela pole zernìre, la bruta tole su a fato.

Na fèmena pianta e despianta na fameja.

No se pole avere la bota piena e la mojère inbriaga.

Nose e done no se sa quale che sia bone.

Ocio celeste, ocio de dama; ocio moro, ocio da putana.

Ogni fémena xe casta se no la ga chi la cazza.

On palo in piè, na stropa domà e na fémena colgà i porta quanto peso che te voi.

Ovo de on’ora, pan de on dì, vin de on ano, dona de quìndese e amigo de trenta.

Pan e nose xe on magnare da spose.

Pan e nosele magnar da putele.

Pan padovan, vini visentini, tripe trevisane e done veneziane.

Parché la dona sia perfeta la ga da vére 4 ‘M': matrona in strada, modesta in cèsa,    massara in casa, mata in leto.

Pèto picenin, late pegorin.

Piola al balo, grande a cavalo.

Quando la mojère se mete le braghesse, al marìo no ghe resta  che le còtole.

Quando la dona trà l’anca, o la xe vaca o poco ghe manca.

Quando le done fa la lissia sola via, l’inverno sbrissa via.

Rossa de pelo, mata par l’osèlo.

Sa volì conossare na persona, vardè la dona al balo e l’omo al zogo.

Se i dise male de to fiola, ciama la comare.

Se na dona xe bela, partorisse na putela.

Sete òmani no mena drento col caro quanto che na fémena la porta fora co la traversa.

Tèndare le tose e bàtare le nose xe tenpo perso.

Tenpo, done e siuri i fà come che i vole luri.

Tre fémene? Una viva, una morta, una inpiturìa de drio la porta.

Vàrdate da l’omo che porta el recin e dala dona che sa de latin.

Vin vecio e dona zòvane.

Vin, done e maroni bisogna gòdarli so’ la so stajon.

Xe pì fadiga far la guardia a na fémena che a on saco de polde

Xe pì le done che varda i òmani che le stele che varda la tera.

 

Numero Proverbi: 95

 

FIOI: I FIOI VISTI DAI NOSTRI VECI

 

A tusi e mati no se comanda.

Chi che ga solo on porzelo lo ga belo, chi ga solo on tosato  lo ga mato.

Chi ghe n’a in cuna no diga de nissuna.

Chi nasse de Lujo no speta comare.

Conpare de anelo pare del primo putelo.

Costa depì on vizio che diese fioi.

De San Martin se sposa la fiola del contadin.

El pare fà la roba, i fioi la vende.

Fioi da slevàre, fero da rosegare.

Fioi picoli, pensieri picoli; fioi grandi, pensieri grandi.

I fioi no porta carestia.

I fioi vien dal cuore, el marìo dala porta.

Mèjo du vivi (fioi) che uno morto.

Mèjo fare on toso che fare na polenta.

Mèjo piànzarli morti inocenti che vivi delinquenti.

On pare mantien sete fioi, sete fioi no xe boni de mantegnere on pare.

Pare che guadagna, fioi che magna.

Quando che’l pitoco mete le braghe sol leto ghe nasse on fiolo.

Rechie-meterna, chi che li ga fati se li guerna.

Se i dise male de to fiola, ciama la comare.

Tèndare le tose e bàtare le nose xe tenpo perso.

Tuti semo fioi de Adamo.

 

Numero Proverbi sora l’argomento: 22

 

FRUTI: I FRUTI SE RANCURA ANCA CO I PROVERBI

 

A la luna de Setenbre la ua e el figo pende.

A San Martin, castagne e vin.

A San Roco le nose le va in scroco.(16/8)

A San Vio le zarese le ga el marìo.

A Sant’Ana le nose va in tana.

A Santa ‘Fema, se scumizia la vendema.(s. Eufemia, 16/9)

A Santa Crose, pan e nose.(14/9)

A Santa Madalena la nosa xe piena.(22/7)

A Setenbre se destaca tuto quel che pende.

A Setenbre, braghe de tela e moloni no i xe pì boni.

Agosto madura, Setenbre vendema.

Aprile sparesin, Majo saresin.

Chi vole el pomo sbassa la rama, chi vole la tosa careza la mama.

Da San Matio ogni fruto xe bonio.

De nose on saco, ma no pì de na fémena par casa.

De San Piero el formento e anca el pero.

De Santa Giustina tuta la ua xe marzemina.

Dopo la crose na pèrtega par le nose.

El bon figo ga da vere camisa da pitoco, colo da picà e culo da  pescadore.

El fruto no’l casca mai lontan da l’àlbaro.

El pèrsego col vin, el figo co l’aqua.

El vilan el vendarìa el gaban par formajo, piri e pan.

Fighi e ùa, el culo se frùa.

Fiuri e fruti se pol tore da tuti.

I mèdeghi e le patate ga i fruti soto tera.

La casa no fà fighi.

La dona xe come la castagna: bela de fora, dentro la magagna.

La zaresa pi bona la xe quela del merlo.

Maroni e vin novo, culo mio te provo.

Maroni e vin novo, scoreze de fogo.

Né zarese, né galete in granaro no se mete.

No ghe xe farina senza sémola, nosèla senza scorza, gran senza paja e omo senza difeti.

Nose e done no se sa quale che sia bone.

Nose e pan, magnare da can.

Nose e pan, pasto da vilan.

On pomo de matina te cava el cataro e te fa pissare ciaro.

Pan e nose xe on magnare da spose.

Pan e nosele magnar da putele.

Par San Lorenzo la nosa xe fata.

Pèrsego e melon tuto ala so’ stajon.

Quando che te magni la nèspola, pianzi.

Quando che’l vin no xe pì mosto, la castagna xe bona a rosto.

Quando piove par la Crose, bon el gran, triste le nose.

Se piove a San Bàrnaba la ua bianca la va via; se piove da matina a sera, va via la bianca e anca la nera. (11/6)

Se piove a San Giorgio ghe sarà carestia de fighi.(23/4)

Se piove a San Vito e Modesto, la ua va torla col zesto.(15/6)

Se piove a Santa Desiderata, casca la ua e resta la grata. (14/6)

Se piove ai primi de Majo, nose e fighi fà bon viajo.

Se piove el dì de Santa Crose el fà cascare le nose.

Se’l tona el dì de San Duane, le cuche va sbuse e le nosèle vane. (24/6)

Tante nosèle, tanta neve.

Tèndare le tose e bàtare le nose xe tenpo perso.

Tenpo e paja fà fare i néspoli.

Vin, done e maroni bisogna gòdarli so’ la so stajon.

 

Numero Proverbi: 54

 

GATI: EL GATO GHE ENTRA SENPRE!

 

Al mese de Jenaro la gata va in gataro.

Chi sparagna el gato magna.

Co’l sorze scanpa, la gata va al paese.

De Febraro ogni gata va in gataro.

El gato sol fogolaro xe segno de miseria.

El naso d’i gati, i zenoci d’i òmani e ‘l culo dele fémene xe senpre fridi.

Gato sarà deventa leon.

Mèjo on sorze in boca a on gato che on omo par le man de on avocato.

No xe colpa dela gata se la parona la xe mata.

On ocio ala gata e staltro ala paèla.

On omo in man del’avocato xe come on sorze in boca al gato.

Quando ch’el gato dorme i sorzi bala.

Tien on ocio al pesse  e ‘nantro al gato.

 

Numero Proverbi: 13

 

INVERNO: EL POSTO DEL’INVERNO SUI PROVERBI

 

A l’Imacolata se scumizia l’invernata.

A San Clemente l’inverno mete el dente.(23/11)

Candelora, de l’inverno semo fora.

Cativo inverno, cativo istà.

Chi no sa cossa che xe l’inferno, fassa el cogo d’istà e ‘l caretier d’inverno.

Co l’Adolorata se va verso l’invernata.

Co’ névega sola foja l’è on inverno che fa oja.

De istà ogni beco fà late, de inverno gnanca le bone vache.

I dì dela merla l’inverno te dà na sberla.

I du Santi del giazo: San Luigino e San Paolino i porta l’Inverno de Giugno.

L’inverno l’è el boia di’ veci, el purgatorio di’ putei e l’inferno di’ poariti.

L’onbra d’istà fà male ala panza d’inverno.

Né de inverno, né de istà tabaro e onbrela mai a ca’.

O dal cao o dala coa l’inverno vol dire la soa.

Pan, vin e zoca, lassa pur che’l fioca.

Piove pì àneme al’inferno che neve de inverno.

Primo de Agosto, capo de inverno.

Quando che’l sorgo rosso el mostra el muso, xe ora de tore la roca e el fuso.

Quando le done fa la lissia sola via, l’inverno sbrissa via.

Stropa longa, inverno longo; stropa curta, inverno curto.

 

Numero Proverbi: 20

 

ISTA’: L’ISTÀ SUI PROVERBI

 

A l’istà piove a contrà.

Agosto cola el pionbo.

Beato l’Istà co tuti i pulzi e i zìmesi che’l ga.

Cativo inverno, cativo istà.

Chi no sa cossa che xe l’inferno, fassa el cogo d’istà e ‘l caretier d’inverno.

De istà ogni beco fà late, de inverno gnanca le bone vache.

Febraro inevà fà bela l’istà.

Fin a Nadale fredo no fà: braghe da istà; dopo Nadale el fredo xe passà, braghe da istà.

In istà la vache va in montagna a fare le siore, e le siore va in montagna a fare le vache.

L’istà de San Martin dura tri dì e on pochetin.

L’onbra d’istà fà male ala panza d’inverno.

Né de inverno, né de istà tabaro e onbrela mai a ca’.

Par San Barnabà el dì pì longo de l’Istà.

Piova d’Istà, beati che che la ga.

 

Numero Proverbi: 14

 

MAGNARE: I PROVERBI A TOLA O TORNO LÌ.

 

A chi che no ghe piase el vin , che Dio ghe toga anca l’aqua.

A magnare el zervelo del pesse se deventa intelijente.

A magnare on spigo de ajo, se spuza come a magnarghene na resta.

A San Martin, castagne e vin.

A Santa Crose, pan e nose.(14/9)

A tola e leto no se porta rispeto.

A tola no se vien veci.

Al primo de Agosto l’ànara se mote a ‘rosto.

Ala de capon, culo de castron e tete de massara xe na roba rara.

Bacalà a ‘la visentina, bon se sera e de matina.

Barbi e rane mai de Majo, parché i fa tristo passajo.

Bieta e vin juta el segantin.

Carne de vaca e legno de figaro par far bela ziera al’amigo caro.

Carne zòvane e pesse vecio.

Chi che laora magna, chi che no laora magna e beve.

Chi che magna aloè vive i ani de Noè.

Chi che no ga fame, o l’è malà o’l ga magnà.

Chi che xe vizin ala cusina magna minestra calda.

Chi fida nel loto no magna de coto.

Chi magna carpion no xe on babion.

Chi magna salata fà la vita beata.

Chi no ghe piase galina col pien, merita pache opure velen.

Chi no magna ga magnà.

Chi vol magnare on bon bocon, magna l’oca col scoton.

Co la panza piena se rajona mèjo.

Co’ riva el trenta de Agosto tute le zuche le va ‘rosto.

Co’ se guadagna se magna.

Corpo pien ànema consolà.

De Otobre, on bel oveto xe pì dolze de on confeto.

De pesse scanpà no se ne ga mai magnà.

Del pito el passo, del polo el volo.

Dio te varda da on magnadore che no beve.

El bon formajo se fà de majo.

El bòvolo xe on pasto fin: bon par el vecio, bon par el putin.

El capon xe senpre de stajon.

El fogo juta el cogo.

El lardo vecio conza la minestra.

El magnare d’i poariti l’è in bisaca ai siuri.

El malà no magna gnente e ‘l magna tuto.

El naso gusta e la boca patisse.

El pan del mona xe el primo magnà.

El pèrsego col vin, el figo co l’aqua.

El pesse ga da noare tre volte: prima ‘ntel’aqua, dopo ‘ntel’ojo e la terza ‘ntel vin.

El pesse guasta l’aqua, la carne la conza.

El riso nasse da l’aqua e ‘l ga da morire sol vin.

El simile col simile, ma le verze co l’ojo.

El vilan el vendarìa el gaban par formajo, piri e pan.

Erba crua no xe par testa canua.

Fighi e ùa, el culo se frùa.

Fin a Nadale magnemo verze e rave.

Formajo, pan bianco e vin puro fà el polso duro.

Galina vecia fà bon brodo.

Ghe xe chi che magna le fave e chi che magna le sgusse.

Ghe xe pì dì che luganega.

I fasoi xe la carne di’ poariti.

I nostri veci ga magnà i canpi e i ne ga assà i proverbi.

I nostri veci ga magnà i capuni e i ne ga assà i proverbi.

In amore nasse corajo se te magni del formajo.

L’ovo del luni pagan l’è del diavolo.

La boca la xe picola, ma la xe bona de magnare canpi e velada.

La boca no xe straca se prima no la sà de vaca.

La coéga cola sol lardo.

La menestra xe la biava de l’omo.

La panza d’i preti xe el zimitero d’i capuni.

La salata la vole el sale da on sapiente, l’aseo da on avaro, l’ojo da on prodigo, smissià  da on  mato e magnà da on afamà.

La testa del barbon xe el mejo bocon.

Magari polenta e pessin, ma na bela testa sol cussin.

Magna da san e bivi da malà.

Magnà i gànbari se ciucia anca le zate.

Magna renghe e sardeloni: te conservarè i polmoni.

Magna, bivi e godi, ma no inpiantare ciodi.

Mal de testa vole magnare, mal de panza vole cagare.

Maroni e vin novo, scoreze de fogo.

Marsoni friti e polentina, on fià de vézena e vin de spina.

Mèjo on ovo oncuò che na galina doman.

Mese de Agosto, colonbo rosto.

Minestra rescaldà no xe mai bona.

Nadale col mandolato, i Morti co la fava, Pasqua co la fugazza.

Né re, né disnare no se fà mai spetare.

No bisogna magnare i ovi prima de verghe cavà la sgussa.

No ghe xe gnente de pì bon che el colo del capon.

Nose e pan, magnare da can.

Nose e pan, pasto da vilan.

O de paja o de fe, cogna che’l stómego sia pien.

Pan che canta, vin che salta e formajo che pianza.

Pan e nose xe on magnare da spose.

Pan e nosele, magnar da putele.

Pan fin che’l dura, vin a misura.

Pan padovan, vini visentini, tripe trevisane e done veneziane.

Pan, sopressa e conpagnia su ‘nte’l bosco fà alegria.

Panza piena vole riposo.

Panza voda camisa tacà.

Pitosto che roba vanza, crepa panza.

Polenta brustolà la smorza el figà

Polenta e late ingrossa le culate.

Polenta e puina, pì che se core, manco se camina.

Polenta nova e osei de riva, vin de grota e zente viva.

Polenta senza sale, ma on bel viseto sol cavazale.

Priego a magnare, priego a laorare.

Puina* in ponta, formajo in crosta e salame in coa. *(ricotta)

Quando a Novenbre el vin no xe pì mosto, la pitona xe pronta  par el ‘rosto.

Quando che la spiga ponze, la sardela onze.

Quando che te magni la nèspola, pianzi.

Quando che’l vin no xe pì mosto, la castagna xe bona a rosto.

Quando la rosa buta el spin, magna gò e passarin.

Quando xe ciara la marina, magna, bivi e va in cusina.

Quando xe ciara la montagna, magna, bivi e va in canpagna.

Quatro a on segon, du a on capon.

Quelo che no sòfega ingrassa.

Quelo che no strangola ingrassa e quelo che no ingrassa passa.

Risi bianchi, magnare da béchi.

Sa volì védare el diluvio universale, metì dodese preti a tola a magnare.

San Bogo, la torta al fogo.

Tenca de Majo e luzo de Setenbre.

Tra i pessi on bel ronbeto, tra i quadrupedi el porcheto.

Tripe de merda parché l’osto no ghe perda.

Vin de fiasco: ala sera bon, ala matina guasto.

Xe mèjo cavarse on ocio che magnare el vermo del fenocio.

Xe mèjo èssare bechi e ver da becare che no èssare bechi e no ver da magnare.

Xe mèjo polenta in casa soa che rosto in casa di’ altri.

Xe par la boca che se scalda el forno.

Zena longa, vita curta; zena curta, vita longa.

Zuca santa che la canta e baruca che la sia muta.

 

Numero Proverbi sol’argomento: 123

 

MALATIE: SORA LE MALATIE E I MALANI.

 

A dieta el mal se chieta.

Amore, tosse e panza no se sconde.

Aria de fessura porta ala sepoltura.

Chi che grata la rogna ai altri rinfresca la soa.

Chi che no ga fame, o l’è malà o’l ga magnà.

Chi ladra, Dio ghe dona; chi no ladra, pioci e rogna.

Co’ la carne xe frusta l’ànema deventa justa.

Dolore confidà xe guarìo par metà.

El malà no magna gnente e ‘l magna tuto.

El male dela pria xe el pezo male che ghe sia.

El male no domanda permesso.

El male riva a cavalo e ‘l parte a piè.

El male vien a carete e ‘l va via a onze.

El mèdego pietoso fà la piaga verminosa.

In casa strinzi, in viajo spendi, in malatia spandi.

In tenpo de peste pì baje che feste.

L’ajo el xe la farmacia del vilan.

L’ajo guarisse el tàjo.

L’aqua de San Joani guarisse tuti i malani.

L’onbra d’istà fà male ala panza d’inverno.

La dona va sojeta a quatro malatie al’ano, e ogni una dura tri misi.

La roba donà fà male ala panza.

La rosà de Majo guarisse le buganze de genajo.

La tosse xe ‘l tanburo dela morte.

Magna da san e bivi da malà.

Mal de testa vole magnare, mal de panza vole cagare.

Né la malatia, né la preson fà deventare l’omo bon.

Né panza, né rogna, né tosse se sconde.

Oci e lengua xe le spie de tante malatie.

Parenti mal de denti.

Salute,amore, schei e tenpo par gòdarli.

Xe mèjo suàre che tossire.

 

Numero Proverbi sol’argomento: 32

 

MESI: A OGNI MESE I SO PROVERBI…

 

A Jenaro tuti i veci va a ponaro.

A la luna de Setenbre la ua e el figo pende.

A le prime aque de Agosto la tortora la va via.

A Marzo ogni mato va descalzo.

A Setenbre se destaca tuto quel che pende.

A Setenbre, braghe de tela e moloni no i xe pì boni.

A Setenbre, chi xe esperto no viaja mai descuerto.

Agosto cola el pionbo.

Agosto conpisse, Setenbre madurisse.

Agosto madura, Setenbre vendema.

Agosto rinfresca el bosco.

Ai ultimi de Setenbre, i fringuei par la tesa.

Al mese de Jenaro la gata va in gataro.

Al primo de Agosto l’ànara se mete a ‘rosto.

Ala Madona de Agosto rinfresca el bosco.(15/8).

Ala prima aqua de Agosto, pitoco te conosso.

Aprile ga el fiore, Majo l’odore.

Aprile la spiga, Majo el late, Giugno el gran.

Aprile piovoso, ano frutuoso.

Aprile tenperà e Majo suto, formento dapartuto.

Aprile, on’ora el pianze, on’ora el ride.

Aqua de Agosto, miele e mosto.

Aqua de Aprile, fromento sol barile.

Aqua setenbrina, velen par la cantina.

Aria setenbrina, fresca la sera fresca la matina.

Barbi e rane mai de Majo, parché i fa tristo passajo.

Beato l’Istà co tuti i pulzi e i zìmesi che’l ga.

Bon come l’aqua de Lujo.

Chi ghe ga on zoco sol cortile, lo tegna pa ‘l mese de Aprile.

Chi che pianta de Aprile cava de Majo.

Chi nasse de Lujo no speta comare.

Chi vole on bel ajàro lo pianta de Jenaro.

Co’ canta le zigàle de Setenbre no conprare gran.

Co’ riva el trenta de Agosto tute le zuche le va ‘rosto.

Co’ toneza de Jenaro chi ga quatro vache se ne magna on paro.

De Febraro calche mato va senza tabaro.

De Febraro ogni gata va in gataro.

De Giugno miti la messora* in pugno. *(falce)

De Marzo no bisognarìa che pissesse gnanca na rana.

De Novenbre, quando tona xe segnal de anata bona.

De Otobre, on bel oveto xe pì dolze de on confeto.

Dicenbre se tole e no rende.

Dicenbre, davanti el te scalda e de drio el te ofende.

El bon formajo se fà de majo.

El primo de Aprile, miti le zuche che le vien come on barile.

El sole de Agosto brusa i piantoni.

Febraro inevà fà bela l’istà.

Fevraro curto, erba da par tuto.

Fevraro curto, pezo de tuto.

Fongo de Majo, spighe de Agosto.

Giugno, Lujo e Agosto, né dona, né aqua, né mosto.

Gran fredo de Jenaro se incolma el granaro.

I du Santi del giazo: San Luigino e San Paolino i porta l’Inverno de Giugno.

I ùltimi de Jenaro, sèntate sol fogolaro.

Jenaro co la pòlvare, granaro de ròare.

Jenaro e Febraro i xe du misi che va a paro.

Jenaro suto, gran dapartuto.

L’aqua de Giugno ruina el munaro.

L’aqua de Majo ingrassa el formento.

L’aria de Febraro xe come on loamaro.

La neve decenbrina disisète volte la se capina.

Luna setenbrina sete lune se ghe inchina.

Luna setenbrina, sete lune la indovina.

Majo fresco e ventoso fà l’ano copioso.

Majo fresco, fava e formento.

Majo fresco, paja e formento.

Majo ortolan, tanta paja e poco gran.

Majo piovoso, vin costoso.

Majo suto, gran dapartuto.

Marzo el se fà vanti, el merlo el fà noze coi so canti.

Marzo spolvarento, poca paja e tanto formento.

Marzo suto e Aprile bagnà: beato chel contadin che ga somenà.

Marzo sventolaro fromento in granaro.

Marzo sventolon, more la piègora e anca el molton.

Marzo, par quanto tristo che’l sia, el buò al’erba e ‘l cavalo al’onbrìa.

Mese de Agosto, colonbo rosto.

Na bona aqua de Febraro vale pì de on loamaro.

Nela luna setenbrina la sardela se rafina.

Neve de Jenaro inpina el granaro.

Neve novenbrina trédese volte la se rafina.

No vien Majo se no fiorisse le rose.

Novenbre col ton, l’ano xe bon.

Novenbre e Dicenbre benedisse Setenbre.

Novenbre, co San Martin ano novo par el contadin.

Piova de Jenaro, erba de Febraro.

Pòlvare de Jenaro la inpina el granaro.

Primavera de Jenaro la ruina el persegaro.

Primo de Agosto, capo de inverno.

Quando a Novenbre el vin no xe pì mosto, la pitona xe pronta  par el ‘rosto.

Quando a Otobre scurisse e tòna, l’invernada sarà bona.

Quando el merlo canta d’amore Febraro finisse.

Quel che Lujo no vole, Setenbre no pole.

Se Febraro no verdéga in Aprile no se sega.

Se Giugno sguaza poco vin in taza.

Se Jenaro no fà el giazo, Febraro fà el pajazo.

Se Majo fà fresco va ben la fava e anca el formento.

Se Majo rasserena, ogni spiga sarà piena.

Se Marzo buta erba Aprile buta merda.

Se Marzo no incodega, a Majo no se sega.

Se Marzo resenta, fromento e polenta.

Se no fa caldo a Lujo e Agosto sarà tristo el mosto.

Se Otobre camina lento te pol èssare contento.

Se par Setenbre no te ghe arà, tuto l’ano xe malandà.

Se piove ai primi de Majo, nose e fighi fà bon viajo.

Se vènta* ai tri de Marzo e al dì de San Gregorio, vènta par quaranta dì. (12/3)

Starna setenbrina, una la sera e una la matina.

Suta de Agosto, tonpesta de Majo.

Tenca de Majo e luzo de Setenbre.

Vento de Majo, poco tormento.

 

Numero Proverbi che parla de misi: 109

 

MESTIERI: TUTI I MESTIERI, SPECIE QUILI DE NA VOLTA

 

A canbiare munaro se canbia ladro.

A l’astuzia del munaro no gh’è mai nissun riparo.

A San Firmin, sòmena el contadin. (11/10)

Bieta e vin juta el segantin.

Botega de canton fà schei ogni cojon.

Chi arte no sà, botega sara.

Chi che fa el conto prima de l’osto el lo fa do volte.

Chi che ga on mistièro in man da par tuto trova pan.

Chi fà scarpe porta zavate.

Chi mistièro no sa botega sara.

Chi va a l’osto perde el posto.

Ciodo, martelo e segon: i miracoli del marangon*. *(falegname)

Co l’arte e co l’ingano se vive mezo ano; co l’ingano e co l’arte se vive staltra parte.

Co’ l’osto xe sola porta no ghe xe nissuni drento.

El bon figo ga da vere camisa da pitoco, colo da picà e culo da  pescadore.

El fogo juta el cogo.

El laòro dela sega el slonga i brazi e ‘l scurza la tega.

El laòro fato de festa va fora par la finestra.

El marangon conosse el legno tristo e quelo bon.

El marangon laora senza stajon.

El marzaro*, prima el fà i schei e dopo la cossienza.

El moleta fà girare la rua, el cortelo intanto se frua.

El tenpo fà i mistieri.

Fare i mistieri che no se conosse i dìnari i deventa mosche.

I oci del spazacamin xe senpre bianchi.

In casa de pescaduri l’è on tristo pescare.

In t’el mistiero del munaro, tanto se roba co la stadiza che col staro.

L’aqua de Giugno ruina el munaro.

L’ortolan ga senpre tera in man.

L’ultimo che more de fame xe ‘l munaro.

La camisa del spazacamin xe senpre sporca.

La morte xe senpre pronta, come le tole dei osti.

La pignata de l’artesan, se no la boje oncuò la boje doman.

La sega misura el brazzo.

La tera e i canpi li laora i ignoranti.

La zeola la xe la rufiana del cuogo.

Laòro de manareto poco e maledeto.

Laòro de sachi laòro da mati.

Laòro tacà finìo par metà.

Le parole del moleta no le vale on’eta.

Luna bassa, pescadore sicuro.

Luna in piè, marinaro sentà; luna sentà, marinaro in piè.

Marcante e porco stimalo dopo morto.

Marzo suto e Aprile bagnà: beato chel contadin che ga somenà.

Mèjo on sorze in boca a on gato che on omo par le man de on avocato.

No bisogna domandarghe a l’osto se’l ga bon vin.

Novenbre, co San Martin ano novo par el contadin.

O tardi o bonora, l’osto va in malora.

Ogni piataro dise ben del so pignate.

On lièvore fra du can, on contadin fra du avocati, on malà fra du doturi: chi sta pèzo de luri!

On omo in man del’avocato xe come on sorze in boca al gato.

Par ben lustrare ghe vole ojo de gunbio.

Par San Domin sòmena el contadin.

Par San Gioachin, l’ortolan nel camarin.

Pitosto che soto paron in nave, mèjo paruni de na sèssola.

Pitosto che’l palin, mejo el spazin.

Prima se varda el buso, po’ se fà el caecio.

Quando ch’el xe tajà e inbastìo ogni cuco ghe va drio.

Quando che uno sa fare i capèi el pol farli par qualunque testa.

Se no ghe fusse chi che fà no ghe sarìa chi che magna.

Se no ghe fusse la cola e ‘l stuco el marangon sarìa distruto.

Suòre de stradin e grasso de mussolin guarisse tuti i mali.

Tajo largo, sega streta.

Tanto xe marcante quelo che guadagna che quelo che perde.

Tra arte e busia se vende la marcanzia.

Tuti i mistieri fà le spese.

Vinti munari, vinti sartori e vinti osti fà sessanta ladri.

 

Numero Proverbi: 67

 

MORTI: I MORTI E LA MORTE

 

A chi che ga denaro forte, quando l’è vecio se augura la morte.

Canpane a ore, calcun che more.

Chi che xe destinà par la forca no se nega.

Chi dà via el fato soo prima che’l mora, el merita la morte co la mazola.

Chi no more in cuna ghe ne inpara senpre calcuna.

Chi va pian va lontan, chi va forte va ala morte.

Co poco se vive, co gnente se more.

Co’ i nasse i xe tuti bei, co’ i se marida i xe tuti siuri, co’ i more i xe tuti boni.

Co’ more el vecio la casa se desfa.

Co’ se sta ben se more.

I veci porta la morte davanti e i zòvani de drio.

L’ultimo abito ch’i ne fà l’è senza scarsèle.

L’ultimo che more de fame xe ‘l munaro.

La morte del lovo xe la salute dele piègore.

La morte no ga lunario.

La morte xe senpre pronta, come le tole dei osti.

La tosse xe ‘l tanburo dela morte.

Morire xe l’ultima capèla che se fà.

Morto on papa se ne fà ‘nantro.

Tute le robe storte le fà drite la morte.

Tuti i ossi torna al so logo.

Tuti nasse pianzendo, nissun more ridendo.

Ai Morti e ai Santi i corvi sbandona i monti e i vien a pascolare ai canpi.

Al dì d’i morti la neve xe ale porte.(2/11)

Canpanon a bonora, la xe na trista sagra.

Co’ se xe morti, San Michele pesa le àneme e i preti i candeloti.

El morto in cassa, el vivo se la spassa.

I morti verze i oci ai vivi.

Mèjo piànzarli morti inocenti che vivi delinquenti.

Nadale col mandolato, i Morti co la fava, Pasqua co la fugazza.

Omo vivo pagarà, omo morto ga pagà.

Par i Santi, neve sui canpi; par i Morti, neve sui orti.

Xe mejo ‘ndare in paradiso strazà che al’inferno in abito ricamà.

 

Numero Proverbi: 33

 

NOSE: PROVERBI …COME NOSE

 

A San Roco le nose le va in scroco.(16/8)

A Sant’Ana le nose va in tana.

A Santa Crose, pan e nose.(14/9)

A Santa Madalena la nosa xe piena.(22/7)

De nose on saco, ma no pì de na fémena par casa.

Dopo la crose na pèrtega par le nose.

Nose e done no se sa quale che sia bone.

Nose e pan, magnare da can.

Nose e pan, pasto da vilan.

Pan e nose xe on magnare da spose.

Par San Lorenzo la nosa xe fata.

Quando piove par la Crose, bon el gran, triste le nose.

Se piove ai primi de Majo, nose e fighi fà bon viajo.

Se piove el dì de Santa Crose el fà cascare le nose.

Tèndare le tose e bàtare le nose xe tenpo perso.

 

Numero Proverbi: 15

 

OMANI: TUTO SUI OMANI

 

A l’amo se ciapa el pesse, i òmani a l’intaresse.

Bon naso, fà bel’omo.

Co l’età, l’omo fa panza e la fémena fa stomego.

Co la caveza se liga i cavai, co la parola i òmani.

Co’ nasse na fémena, nasse na serva; co’ nasse on omo, nasse on paron.

Co’l cavéjo tra al bianchin, assa la dona e tiente el vin.

Cusina che fuma, dona cativa e coverta rota manda l’omo in malora de troto.

El naso d’i gati, i zenoci d’i òmani e ‘l culo dele fémene xe senpre fridi.

El pòvaro omo no fa mai ben: se more la vaca ghe vanza el fen, se la vaca scanpa e l fen ghe manca.

El pòvaro omo no l’è da conséjo: el parla ben e no’l xe scoltà, el parla male e ‘l xe  picà.

Fumo e dona ciacolona fà scanpare l’omo de casa.

I òmani ala guera e le vache in montagna no se garantisse.

I òmani ga i ani ch’i se sente, le done quei che le mostra.

I siùri more de fame se i poariti no sùa.

L’ocasion fà l’omo ladro.

L’omo da vin no ‘l vale on quatrin.

L’omo el tien su on canton dela casa, la fémena staltri tri.

L’omo fà la dona e la dona fà l’omo.

L’omo maridà porta quatro “p”: pene, pensieri, pentiminti e pecati.

L’omo pì bruto xe quelo che ga le scarsèle roverse.

L’omo propone, Dio dispone.

L’omo: che’l sia san, cristian e che’l sapia guadagnarse el pan.

La bona mojère fà el bon marìo.

La menestra xe la biava de l’omo.

La parola liga l’omo, la corda el musso.

Le montagne sta ferme e i òmani se move.

Mèjo on sorze in boca a on gato che on omo par le man de on avocato.

Mèjo picoli e ben conpìi che grandi e insemenìi.

Né la malatia, né la preson fà deventare l’omo bon.

No ghe xe farina senza sémola, nosèla senza scorza, gran senza paja e omo senza difeti.

Novantanove maridà fà zento bechi.

Ogni galo senza cresta xe on capon, ogni omo senza barba xe on cojon.

Omo de confin, o ladro o assassin.

Omo lodà, o morto o scanpà.

Omo maridà, oselo in gabia.

Omo vivo pagarà, omo morto ga pagà.

On omo in man del’avocato xe come on sorze in boca al gato.

Quando che l’omo xe pien de vin el te parla anca in latin.

Quando che l’omo xe stimà el pole pissare in leto e dire che’l ga suà.

Quando Dio vol castigar un omo el ghe mete in testa de maridarse.

Sa volì conossare na persona, vardè la dona al balo e l’omo al zogo.

Sete òmani no mena drento col caro quanto che na fémena la porta fora co la traversa.

Sola vita de on omo che’l sia on omo ghe xe senpre almanco na ostaria.

Vàrdate da l’omo che porta el recin e dala dona che sa de latin.

Xe pì le done che varda i òmani che le stele che varda la tera.

 

Numero Proverbi: 45

 

ORTO: I PROVERBI IN MEZO AL’ORTO

 

A magnare on spigo de ajo, se spuza come a magnarghene na resta.

A San Simon se cava la rava e ‘l ravanon.(28/10)

Aprile sparesin, Majo saresin.

Chi che ga le zuche no ga i porzei.

Chi magna salata fà la vita beata.

Chi vole on bel ajàro lo pianta de Jenaro.

Co’ riva el trenta de Agosto tute le zuche le va ‘rosto.

Co’ riva le Madone tute le zuche le xe bone.

Da la Befana la rapa xe vana.

De San Luca pianta la rapa e cava la zuca.

Dio te varda dal vermo del fenocio e da chi che ga on solo ocio.

El primo de Aprile, miti le zuche che le vien come on barile.

El simile col simile, ma le verze co l’ojo.

Fin a Nadale magnemo verze e rave.

Ghe xe chi che magna le fave e chi che magna le sgusse.

I fasoi veci nasse in panza.

I fasoi xe la carne di’ poariti.

I mèdeghi e le patate ga i fruti soto tera.

La salata la vole el sale da on sapiente, l’aseo da on avaro, l’ojo da on prodigo, smissià da on   mato e magnà da on afamà.

La zeola la xe la rufiana del cuogo.

Le zuche nate fra le do madone le xe le pì bone.

Le zuche vode le sta sora l’aqua.

Le zuche vode vien senpre a gala.

Majo fresco, fava e formento.

No ghe xe erba che varda in su che no gabia la so virtù.

O prima o dopo se fà anca le zuche.

Par l’Anunziata la zuca xe nata.

Quando che la zuca se ingrossa el pecòlo se seca.

Se Majo fà fresco va ben la fava e anca el formento.

Se’l tona el dì de San Duane, le cuche va sbuse e le nosèle vane. (24/6)

Xe mèjo cavarse on ocio che magnare el vermo del fenocio.

Verze e fasòi sbrega i nizòi.

Zuca santa che la canta e baruca che la sia muta.

Zuche e fen int’on mese i vien.

 

Numero Proverbi: 34

 

PAN: SE VIVE ANCA DE PAN…

 

A Santa Crose, pan e nose.(14/9)

Anca i cojuni magna el pan.

Chi che no ga pan ga denti.

Chi no xe bon de rònpare el pan no xe bon de guadagnàrsene.

Col pan se fà balare i can.

Dove che no ghe xe vin da travasare e farina da far pan staghe lontan.

El pan del mona xe el primo magnà.

El pan del poareto xe senpre duro.

El pan in mostra xe l’ultimo vendù.

El vin al saore, el pan al colore.

Faustin, poco pan e tanto vin.

Fin che ghe xe pan in convento, frati no manca.

Formajo, pan bianco e vin puro fà el polso duro.

La piova de San Bernardin la roba pan, ojo e vin.

La speranza xe el pan d’i poariti.

Lìssia e pan: dale done staghe lontan.

Nose e pan, magnare da can.

Nose e pan, pasto da vilan.

Ovo de on’ora, pan de on dì, vin de on ano, dona de quìndese e amigo de trenta.

Pan che canta, vin che salta e formajo che pianza.

Pan e nose xe on magnare da spose.

Pan fin che’l dura, vin a misura.

Pan padovan, vini visentini, tripe trevisane e done veneziane.

Pan, sopressa e conpagnia su ‘nte’l bosco fà alegria.

Pan, vin e zoca, lassa pur che’l fioca.

Soto la neve, pan; soto l’aqua, paltan.

 

Numero Proverbi: 26

 

PERLE: PERLE…

 

A caminare a stravento se fa senpre fadiga.

A chi carne de testa e a chi de colo.

A chi nasse scarognà ghe piove sol culo stando sentà.

A comiziare i lavori de vènare la roba va in zénare.

A dire busie ghe vole bona memoria.

A dire la verità ghe vole on cojon, a dire busie ghe vole on  bricon.

A far credenza se perde l’aventore.

A far la carità no se va in miseria.

A l’astuzia del munaro no gh’è mai nissun riparo.

A l’osèlo ingordo ghe crepa el gosso.

A lavarghe la testa al molton, se consuma l’aqua e anca el saon.

A on belo senpre ghe manca, a on bruto senpre ghe vanza.

A pensar mal se fa pecà, ma se indovina senpre.

A parlare se fa presto: pì difìzile xe el resto.

A quatro a quatro se inpinisse el saco.

A quel che vien da sóra no ghe xe riparo.

A robare poco se va in galera, a robare tanto se fa cariera.

A sentarse so do careghe el culo se sbrega.

A vìvare co la testa sol saco xe bon ogni macaco.

Al cao de là fa la pitona.

Al ciaro de luse ogni stronzo traluse.

Amore fa amore, cativeria fa cativeria

Anca i cojuni magna el pan.

Anca la cossienza fa el calo.

Anca na bruta sìmia pole fare on bel salto.

Aqua passà no masena pì.

Aqua turbia no fa specio.

Arte toa, nemigo too.

Articolo quinto: chi che ga schei ga senpre vinto.

A viajare se se descanta, ma chi che parte mona torna indrio mona.

Barca fondà no ga bisogno de benedission.

Baso devoto no vole èssare visto.

Baso par forza no vale na scorza.

Beati i ultimi se i primi ga creanza.

Ben, bon e magari i jera tri che fabricava lunari.

Bisogna che ghe sia chi che fà parché ghe sia chi che magna.

Bisogna tacare el musso dove che vole el paron.

Boca onta no la pole dire de no.

Boca sarà no ciapa moschini.

Bondanza e roganza xe tuta na piatanza.

Bone parole e cativi fati ingana savi e mati.

Bota che canta la xe voda.

Bronza cuerta brusa la traversa.

Can che baja no mòrsega.

Canpo pestà no produse erba.

Carità par forza, fiore che spuza.

Carne che cresse no sta mai ferma.

Carta canta, vilan dorme.

Chi arte no sà, botega sara.

Chi che dal loto speta socorso, mostra le bale come l’orso.

Chia canta a tola o in leto l’è on mato perfeto.

Chi che ga da vere ga da dare.

Chi che ga la rogna se la grata.

Chi che ga le zuche no ga i porzei.

Chi che ga santoli ga buzolà.

Chi che ga schei ga senpre rason.

Chi che grata la rogna ai altri rinfresca la soa.

Chi che massa se inchina mostra el culo.

Chi che nasse tacà a on fosso spuza senpre da freschin.

Chi che no ga pan ga denti.

Chi che ronpe de vecio paga de novo.

Chi che siòla ga pensieri.

Chi che va par i spini i xe quili descalzi.

Chi che varda i fati di’ altri i sui ghe va da malo.

Chi che varda in suso se inbalza.

Chi che xe vizin ala cusina magna minestra calda.

Chi cominzia ben el primo de l’ano sta ben tuto l’ano.

Chi da galina nasse, da galina ruspa.

Chi dòpara loame no ga mai fame.

Chi fa la pignata sa fare anca el manego.

Chi ga fato le pignate pol anca rònparle.

Chi ga la caza in man minestra a so modo.

Chi ladra, Dio ghe dona; chi no ladra, pioci e rogna.

Chi more el mondo assa, chi vive se la spassa.

Chi no ga testa ga ganbe.

Chi no laora no magna.

Chi no magna ga magnà.

Chi no sa rìdare no sa vìvare.

Chi no se inzegna fa la tegna.

Chi òrdena paga.

Chi pì capisse pì patisse.

Chi pì xe, manco se vanta.

Chi sbaglia de testa paga de scarsela.

Chi somena spini no vaga descalzo.

Chi sparagna el gato magna.

Chi va a l’osto perde el posto.

Chi va pian va lontan, chi va forte va ala morte.

Chi va sa calcossa, chi manda speta risposta.

Chi va via perde la partia.

Chi vole ‘ndare massa in suso, casca par tera e se ronpe el muso.

Co la caveza se liga i cavai, co la parola i òmani.

Co la panza piena se rajona mèjo.

Co’ capita on bon bocon, mona chi che no ghe ne aprofita.

Co’ ghe n’è massa le cioche se beca.

Co’ i ladri se fa la guera, segno ch’i xe d’acordo.

Co’ i picoli parla i grandi ga parlà.

Co’ la carne xe frusta l’ànema deventa justa.

Co’ la oja la xe pronta le ganbe se fà liziere.

Co’ manca el méjo i osei se beca.

Co’ na man se da e co’ staltra se riceve.

Co’ no ghe xe pì gànbari, xe bone anca le zate.

Co’ parla na bela dona la ga senpre rason.

Co’ se ciapa on vizio se stenta a pèrdarlo.

Co’ se ga scumizià no ghe xe pì retegno.

Co’ te vidi par strada on bòzolo, no starte fermare: o pesi da portare o bote da ciapare.

Coi birbi el galantomo fà senpre la figura del cojon.

Col minestro che se minestra se vien minestrà.

Dai cupi in su nissun sa gnente.

Dele volte na busia salva la verità.

Dove che ghe vole fati, no basta le parole.

Dove che manca i cavai anca i mussi trota.

Dove che passa la barca pol passare anca el batelo.

Dove no ghe xe ocio no ghe xe làgreme.

Drio ai ani ghe va el judizio.

Dura depì na pignata rota che una sana.

El baston xe on cativo maestro.

El bisogno insegna a far de tuto.

El butare via xe parente del piànzare.

El carbon l’inzende o l’intenze.

El desperà xe senpre castrà.

El fruto no’l casca mai lontan da l’àlbaro.

El judizio salva l’osso del colo.

El lume xe na meza conpagnia.

El mondo xe grande: basta voler caminare.

El mondo, mezo el xe vendù e mezo el xe da vèndare.

El nome di’ zucuni xe scrito sui cantuni.

El pan del paron el ga tre croste.

El poco basta, el massa guasta.

El rùzene magna el fero.

El sapiente sa poco, l’ignorante el sa massa, ma el mona sa tuto.

El tènaro ronpe el duro.

El tenpo no ghe fà torto a nissuni.

El tenpo e la rason xe senpre del paron.

Facile xe piantare ciodi, ma dificile xe s-ciodarli.

Fin che dura i bezi, amighi no manca.

Fin che dura la menada dura la polenta.

Fin che dura sto regno, scarpe de legno.

Fin che l’invidioso se rode, l’invidia se gode.

Fogo de paja e troto de vecia dura poco.

Fra’ Modesto no’l xe mai deventà priore.

Frua la bareta chi se la cava a tuti.

Ghe xe pì dì che luganega.

Ghe xe pì tenpo che vita.

Gnente, xe bon pa’i oci.

I “se” e i “ma” se du ebeti da Adamo in qua.

I bauchi casca senpre par tera.

I curiusi se paga al sabo.

I fasoi veci nasse in panza.

I muri veci fà panza.

I oci del spazacamin xe senpre bianchi.

I ovi xe boni anca dopo Pasqua.

I parenti xe come le scarpe: pì striti i xe, pì male i fà.

I schei no i ga ganbe ma i core.

I siùri more de fame se i poariti no sua.

In tenpo de peste pì baje che feste.

L’omo da vin no ‘l vale on quatrin.

L’onore xe come el vento: el va fora da tuti i busi.

L’union dela fameja sta int’el casson dela farina.

La boca la se liga solo ai sachi.

La bona maniera la piase a tuti.

La burla no la xe bela se no la xe fata a tenpo.

La coa massa longa xe quela che copa la volpe.

La coéga cola sol lardo.

La fadiga fa catare l’inzegno.

La fortuna la va drio ai orbi.

La frégola la vien dal toco.

La joza scava la piera.

La justizia xe fata a maja.

La léngoa no ga osso, ma la pole rónpare i ossi.

La pezo roa del caro xe quela che ruza.

La pigrizia la va tanto pian che la miseria la ciapa.

La ràza no va su par el talpon.

La roba che se buta via coi piè, vien dì che la se rancura co le man.

La roba donà fà male ala panza.

La roba no xe de chi che la fà, ma de chi che la gode.

Le bone azion xe come le vivande, che no le vale gnente co’ le spuza da fumo.

Le bone parole onze, le cative ponze.

Le ciàcole no inpasta fritole.

Le maravéje dura tri dì.

Le montagne sta ferme e i òmani se move.

Le novità le piase a chi che no ga gnente da pèrdare.

Le parole no inpinisse la panza.

Le zuche vode le sta sora l’aqua.

Le zuche vode vien senpre a gala.

Laòro tacà finìo par metà.

Mai assàre la strada vecia par quela nuova.

Mèjo ‘vere du schei de mona che passare par massa svejo.

Mèjo el tacon del sbrego.

Mèjo le braghe sbuse sol culo che el culo sbuso so le braghe.

Mèjo na torta in du che na merda da ti solo.

Mèjo on ovo oncuò che na galina doman.

Méjo on piato de bela ziera che zento pastizi.

Misura el ciodo prima de piantarlo.

Na joza de miele conza on mare de fiele.

Na man lava l’altra e tute do lava el muso.

Na mota e na busa fà on gualivo.

Na pena ala volta se pela l’oca.

Na serenada de note dura fin che on can fà le balote.

Né na parola dita, né on naso tirà no torna indrio.

Né panza, né rogna, né tosse se sconde.

No bisogna magnare i ovi prima de verghe cavà la sgussa.

No fare el passo pì longo del ganba.

No ghe xe avere che conta depì del savere.

No ghe xe carne in becaria che presto o tardi no la vaga via.

No ghe n’è mai a bastanza se no ghe ne vanza.

No ghe xe mai ben che no gabia el so male.

No ghe xe nessun ladron che no gabia la so devozion.

No ghe xe pignata che covercio no la cata.

No ghe xe rizeta par la paura.

No ghe xe sordo pì grande de quelo che no vole scoltare.

No ghe xe straza che no la vegna bona.

No pole èssare jutà chi che no vole èssare consilià.

No se fà on capelo par na sola piova.

No se ga se no quel che se gode.

No se pole avere la bota piena e la mojère inbriaga.

No se pole caminare sola neve senza assare peche.

No se pole cantare e portare la crose.

No se pole far cagare i mussi par forza.

O basa sto cristo o salta sto fosso.

O magna sta minestra o salta sta finestra.

O prima o dopo se fà anca le zuche.

Ogni bela scarpa deventa na bruta zavata.

Ogni dì nasse on cuco.

Ogni mosca la fa la so onbra.

Ogni paese ga le so usanze, ogni porta ga el so batocio.

Omo lodà, o morto o scanpà.

On alto e on basso fà on gualivo.

On bel védare fà on bel crédare.

Onore de boca poco vale e manco costa.

Par gnente l’orbo no canta.

Par savere la verità bisogna sentire du busiari.

Parere e no èssare xe come filare e no tèssare.

Pesse grosso magna pesse picolo.

Prima de parlare, tasi.

Quando che l’aqua toca el culo tuti inpara a noare.

Quando che la barca va ogni cojon la para.

Quando che la merda monta in scagno, o che la spuza o che la  fà dano.

Quando che no se pole ciapare el pesse se ciapa le rane.

Quando che uno sà fare i capèi el pol farli par qualunque testa.

Quel che se vede no xe de fede.

Quelo che no sòfega ingrassa.

Quelo che no strangola ingrassa e quelo che no ingrassa passa.

Reve e guseleta* mantien la poareta.

Roba fruà no tien ponto.

Roba robà no fà conpanàdego.

Roba robà, come la vien la va.

S’ciopo vodo fà paura a du.

Sa fusse, sa ghesse e magari i jeri tri sumàri.

Sa volì ca ve lo diga ve lo digo: chi che casca in povertà perde l’amigo.

Saco roto no tien méjo.

Saco vodo no sta in piè.

Scarpa larga e goto pien, ciapa le robe come le vien.

Scarpe vecie sparagna le nove.

Se l’invidia fusse freve tuto el mondo scotaria.

Se le parole paghesse dazio, sarìa on afar serio.

Se no ghe fusse chi che fà no ghe sarìa chi che magna.

Senpre stenta chi no se contenta.

Senza ojo el lume se stua.

Senza spie no ce ciapa ladri.

Svodà la scudela, tuti ghe spua dentro.

Tacà a on ciodo, ma vivo.

Tanti paìsi e tante usanze, tante teste e tante panze.

Tanto toca a chi roba come a chi che tien el saco.

Testa de musso no se pela mai.

Togno fà la roba, el sior Toni la gode, el conte Antonio la magna.

Tre cosse ghe vol par farse siori: o robar, o trovar, o ereditar.

Tre volte bon fà mona.

Trista chela bestia che no para via le mosche co’ la so coa.

Troti de musso e salti de vecio dura poco.

Tute le robe storte le fà drite la morte.

Tute le scarpe no va ben ‘ntel stesso piè.

Tuti ga el so toco de invidia.

Tuti ga la so ora de mona.

Tuti gode a védare i mati in piazza, pur che no i sia dela so razza.

Tuti i mistieri fà le spese.

Tuti nasse pianzendo, nissun more ridendo.

Tuti semo fioi de Adamo.

Tuti va al molin col so saco.

Tuto finisse, via che l’invidia.

Tuto ga fine.

Tuto se justa, fora che l’osso del colo.

Tuto va e vien e gnente se mantien.

Uno no fà canpion.

Uno roba la polpa e ‘staltro ciapa la colpa.

Vale depì na candela davanti che on candeloto de drio.

Vale depì on no co creanza che on sì vilan.

Vedendo uno te lo conossi mezo, co’ ‘l parla te lo conossi tuto.

Xe mèjo on “to” che zento “te darò”.

Xe on bravo can el can che furfa par elo.

 

Numero Proverbi: 289

 

PESCE: EL PESSE IN MEZO AI PROVERBI

 

A l’amo se ciapa el pesse, i òmani a l’intaresse.

A magnare el zervelo del pesse se deventa intelijente.

Bacalà a ‘la visentina, bon de sera e de matina.

Barbi e rane mai de Majo, parché i fa tristo passajo.

Carne zòvane e pesse vecio.

Chi magna carpion no xe on babion.

Co’ no ghe xe pì gànbari, xe bone anca le zate.

De la Sensa le granseole fà partensa.

De Marzo no bisognarìa che pissesse gnanca na rana.

De pesse scanpà no se ne ga mai magnà.

Done, cani e bacalà no i xe boni se no i xe pestà.

El lusso magna la tenca.

El pesse ga da noare tre volte: prima ‘ntel’aqua, dopo ‘ntel’ojo e la terza ‘ntel vin.

El pesse guasta l’aqua, la carne la conza.

El pesse spuza dala testa.

L’ospite xe come el pesse: dopo tri dì el taca a spuzare.

La testa del barbon xe el mejo bocon.

Magari polenta e pessin, ma na bela testa sol cussin.

Magnà i gànbari se ciucia anca le zate.

Magna renghe e sardeloni: te conservarè i polmoni.

Marsoni friti e polentina, on fià de vézena e vin de spina.

Nela luna setenbrina la sardela se rafina.

Pesse grosso magna pesse picolo.

Quando che la spiga ponze, la sardela onze.

Quando che no se pole ciapare el pesse se ciapa le rane.

Quando la rosa buta el spin, magna gò e passarin.

Quando se vede la raìna se no piove oncuò piove domatina.

Tenca de Majo e luzo de Setenbre.

Tien on ocio al pesse  e ‘nantro al gato.

Tra i pessi on bel ronbeto, tra i quadrupedi el porcheto.

 

Numero Proverbi: 30

 

PORCARIE: NO XE TUTO ORO QUELO CHE SLUSE ….MA ANCA QUELO CHE NO SLUSE POLE VALERE ORO!

 

A chi nasse scarognà ghe piove sol culo stando sentà.

A dire la verità ghe vole on cojon, a dire busie ghe vole on  bricon.

A ogni culo el so cagare.

A ogni uno ghe piase la so spuzeta.

A sentarse so do careghe el culo se sbrega.

A tirarse massa indrio se finisse col culo in rio.

Al ciaro de luse ogni stronzo traluse.

Al son de la canpana (schei) ogni dona se fa putana.

Ala de capon, culo de castron e tete de massara xe na roba rara.

Amare e no éssare amà, xe come forbirse el culo senza vere cagà.

Amore, merda e zéndare le xe tre robe tèndare.

Anca i cojuni magna el pan.

Ano piovoso, ano de merda.

A viajare se se descanta, ma chi che parte mona torna indrio mona.

Bisogna avere oci anca sol culo.

Botega de canton fà schei ogni cojon.

Bruta de muso, larga de buso.

Buta via la roba tri dì dopo che la spuza.

Cafè de colo, ciocolata de culo.

Cava erba e miti merda.

Caval, putana e persegar trent’ani no i pol durar.

Cavalo vecio e servo cojon no inbroja el paron.

Chi che dal loto speta socorso, mostra le bale come l’orso.

Chi che massa se inchina mostra el culo.

Chi che nasse tacà a on fosso spuza senpre da freschin.

Chi che pissa contro vento se bagna la camisa.

Chi che se marida de carnevale slonga le ganbe e scurza le bale.

Chi che se marida e no sa l’uso, fa le ganbe fiape e longo ‘l muso.

Chi dise “ma” in culo lo ga.

Chi dòpara loame no ga mai fame.

Chi ga el cao dala soa ga in culo i sbiri.

Chi vol fare el stronzo massa grosso ghe vien le làgreme ai oci.

Chi vol stare san pissa spesso come on can.

Co le done e co le merde se barufa e po’ se perde.

Co’ capita on bon bocon, mona chi che no ghe ne aprofita.

Co’ i xe pì i passi che i boconi l’è on andare da cojoni.

Co’l lovo* deventa vecio i can ghe pissa incoste.

Coi birbi el galantomo fà senpre la figura del cojon.

Culo che caga no ghe xe oro che lo paga.

De Marzo no bisognarìa che pissesse gnanca na rana.

De siuri ghe n’è de tre sorte: siorsì, siorno’ e sior mona.

Daghe da magnare a on vilan che dopo el te caga in man.

Debito sputanà, debito pagà.

Dona nana, tuta tana.

Dopo i ..anta ganbe che trèmola, tete che scanpa.

Dove che ghe xe canpagne ghe xe putane.

Dura depì i loamari che i pajari.

El bon figo ga da vere camisa da pitoco, colo da picà e culo da  pescadore.

El diavolo va a cagare senpre sol monte pì grande.

El laòro dela sega el slonga i brazi e ‘l scurza la tega.

El loame de cavalo el fruta on ano e no sò qualo.

El musso, co’l ga magnà el volta el culo ala grupia.

El naso d’i gati, i zenoci d’i òmani e ‘l culo dele fémene xe senpre fridi.

El pan del mona xe el primo magnà.

El pesse spuza dala testa.

El sapiente sa poco, l’ignorante el sa massa, ma el mona sa tuto.

El tenpo, el culo e i siuri i fà quelo ch’i vole luri.

Fighi e ùa, el culo se frùa.

I cojuni del can e i schei del vilan i xe i primi mostrà.

I mona se conosse da do robe: dal parlare, quando ch’i dovaria tasére e dal tesére quando ch’i dovaria  parlare.

I nostri veci stava zento ani col culo ala piova prima de fare on proverbio.

In istà la vache va in montagna a fare le siore, e le siore va in montagna a fare le vache.

L’aqua morta fà spuza.

L’aria de Febraro xe come on loamaro.

L’avaro farìa de manco de cagare par no butare via gnanca quela.

L’ospite xe come el pesse: dopo tri dì el taca a spuzare.

La boca e el culo xe fradei.

La fémena xe come on falzin: batarla ogni tanto, guzarla senpre.

La merda fà schei.

La passienza xe la minestra dei bechi e la speranza xe l’altare dei cojoni.

La piègora xe benedeta dal culo e maledeta dala boca.

La rason del poareto no la vale on peto.

La vita xe come na scala par le galine: curta e piena de merde.

Le fémene no sa de èssare sentà dessora ala so fortuna.

Le maledission le salta de qua e de là e le finisse sol culo de chi che le ga dà.

La mojere xe come na scoreza: o ti ‘a moli o ti ‘a sòfeghi.

Le tose lo desidera, le maridà lo prova, le vedove lo ricorda.

Le vache pissa, i manzi sbrissa e i bo’ veci xe quei che tira.

Loame, rivai e cavedagne, benedission dele canpagne.

Mal de testa vole magnare, mal de panza vole cagare.

Maroni e vin novo, culo mio te provo.

Maroni e vin novo, scoreze de fogo.

Mèjo ‘vere du schei de mona che passare par massa svejo.

Mèjo le braghe sbuse sol culo che el culo sbuso so le braghe.

Mèjo na torta in du che na merda da ti solo.

Mèjo on tacon che mostrare el culo.

Merda e aqua santa fà la racolta tanta.

Na bona aqua de Febraro vale pì de on loamaro.

No revoltare la merda, parché la spuza.

No se pole far cagare i mussi par forza.

Novantanove maridà fà zento bechi.

Oci mori, rubacuori; oci bisi, paradisi; oci celeste fà inamorare; oci bianchi fà cagare.; ocio moro, ocio da putana.

Ogni can mena la coa, ogni mona vol dire la soa.

Ogni fémena xe casta se no la ga chi la cazza.

On galo senza cresta xe on capon, on omo senza barba xe on cojon.

On palo in piè, na stropa domà e na fémena colgà i porta quanto peso che te voi.

On pomo de matina te cava el cataro e te fa pissare ciaro.

Par scòndare i difeti basta frequentare conpagnie dela stessa cagà.

Par volere savere de tuto se sa anca de mona.

Pì in alto se va e pì se mostra el culo.

Picola al balo, grande a cavalo.

Pitosto che le tarme la magna, xe mejo che i osei la bècola.

Polenta e late ingrossa le culate.

Putei e colunbi insmerda la casa.

Quando che l’aqua toca el culo tuti inpara a noare.

Quando che l’omo xe stimà el pole pissare in leto e dire che’l ga suà.

Quando che la barca va ogni cojon la para.

Quando che la merda monta in scagno, o che la spuza o che la  fà dano.

Quando che la zuca se ingrossa el pecòlo se seca.

Quando la dona trà l’anca, o no la xe vaca o poco ghe manca.

Quando la merda varà calcossa, i poariti nassarà senza buso del culo.

Rìdare e vardare xe parente del cojonare.

Risi bianchi, magnare da béchi.

Rossa de pelo, mata par l’oselo.

Santi che pissa in tera no ghe n’è.

Schei, poderi e canpi e na bela coa davanti.

Se Marzo buta erba Aprile buta merda.

Se no te caghi te cagarè, se no te pissi te creparè.

Se tuti i bechi portasse on lanpion, che gran iluminazion.

Se varda on sbaro de erba: se pol vardare anca na persona piena de merda.

Sfogo de pele, salute de buele.

Sia da cavalo che da mulo sta tri passi lontan dal culo.

Signore, fà ca no sia beco; se ghe so’, fà ca no lo sapia; se lo sò, fà ca no ghe bada.

Stajon de erba, stajon de merda.

Stimar la roba in erba l’è on stimar de merda.

Tira depì on pelo de mona che on paro de buò.

Tre volte bon fà mona.

Tri calighi fà na piova, tre piove na brentana e tri festini  na putana.

Tripe de merda parché l’osto no ghe perda.

Tronba de culo, sanità de corpo.

Tuti ga la so ora de mona.

Tuti i stronzi fuma.

Tuti quanti semo mati par chel buso ca semo nati.

Vale depì on gran de pévaro che on stronzo de musso.

Vàrdate dal culo del mulo, dal dente del can e da chi che tien la corona in man.

Verze e fasòi sbrega i nizòi.

Viajare descanta, ma chi che parte mona torna indrio mona.

Vin novo, braghe leste.

Xe inutile fermare el treno col culo.

Xe mèjo èssare bechi e ver da becare che no èssare bechi e no ver da magnare.

 

Numero Proverbi: 140

 

PRETI….SUI PRETI

 

A Messa, tuti no pole stare tacà al prete.

Chi va a Roma e porta on borsoto, deventa abate o vescovo de  boto.

Co’ se xe morti, San Michele pesa le àneme e i preti i candeloti.

Come che xe grossa la candela, i preti alza la ose.

Confessori e bròcoli i xe boni fin a Pasqua.

Davanti al prete, al dotore e a on capitelo càvate senpre el  capelo.

Dotori e preti no dà mai gnente a nissun.

El bon vin se trova dal paroco.

Fin che ghe xe pan in convento, frati no manca.

I preti fà bòjare la pignata co le fiame del purgatorio.

I siuri more de fame, i poariti de indigestion, i frati de caldo e i preti de fredo.

L’amigo del prete perde la relijon, l’amigo del dotore perde la salute, l’amigo del’avocato perde la causa.

La panza d’i preti xe el zimitero d’i capuni.

Morto on papa se ne fà ‘nantro.

Odio de preti, vendeta de frati e rogna de ebrei, miserere mei.

Par on frate scontento no se sara el convento.

Predica curta, sopressa longa.

Prete in capela, novità bela.

Prete, dotore e comare, no te ne ingatejare.

Quando canbia on prete, tra fare e desfare l’è tuto on laorare.

Sa pì el papa e on contadin che el papa da elo solo.

Sa volì védare el diluvio universale, metì dodese preti a tola a magnare.

Sbaglia anca el prete a dir messa.

Senza stola no se confessa, senza schei no se canta messa.

Vàrdate da prete, contadin, da comare, vizin e da aqua par confin.

 

Numero Proverbi: 25

 

 

SANTI: QUA SE PARLA DE SANTI … QUASI TUTI IN CANPAGNA

A ‘la Madona del Rosario el pitaro* de passajo.(6/10)

A ‘la Madona i pitari ne sbandona.

A ‘la Madona le quaie ne sbandona.

A ‘la prima Madona le se smorza, a ‘la seconda le se inpiza.  (15/8 – 8/9)

A ‘la Salute se veste le bele pute.(21/11)

A chi che no ghe piase el vin , che Dio ghe toga anca l’aqua.

A l’Ave Maria ogni òpara xe conpia.

A l’Imacolata se scumizia l’invernata.

A la vizilia de San Joani piove tuti i ani.(24/6)

A San Baldoin se fa el vin.

A San Bassan on fredo da can.(19/1)

A San Belin el jazo sol caìn.(12/10)

A San Benedeto la vegna su par el paleto.

A San Benedìo le ròndene torna indrio.(21/3)

A San Bernardin fiorisse el lin. (20/5)

A San Bonaventura el medare* l’è finio in pianura. (15/7)

A San Bovo se ronpe el primo ovo. (2/1)

A San Clemente l’inverno mete el dente.(23/11)

A San Crispin se pesta el vin.(25/10)

A San Donato el fredo l’è fato. (7/8)

A San Firmin, sòmena el contadin. (11/10)

A San Francesco i tordi i va de furia.(4/10)

A San Gioachin el primo freschin. (20/8)

A San Gorgon passa la lòdola e ‘l lodolon.(9/9)

A San Gorgon xe finio el tenpo bon.

A San Luca el ton el va in zuca.(18/10)

A San Luca le lòdole se speluca.(18/10)

A San Martin casca le foje e se beve el bon vin.

A San Martin el mosto deventa vin.

A San Martin se calza el grande e anca el picenin.(11/11)

A San Martin se spina el bon vin.

A San Martin, castagne e vin.

A San Matìo el bel tenpo xe finio. (21/9)

A San Matìo el primo tordo xe mio.

A San Modesto el fredo vien col zesto. (12/1)

A San Nicòlo tira la neve sol colo.(6/12)

A San Pelegrin, poca paja e poco vin. (5/5)

A San Roco le nose le va in scroco.(16/8)

A San Roco le quaie le va de troto.

A San Roco le ròndene fà fagoto.

A San Saturnin la neve sol camin.(28/11)

A San Simon le lòdole a valon.(28/10)

A San Simon se cava la rava e ‘l ravanon.(28/10)

A San Tizian on fredo can. (16/1)

A San Valentin el giazo no tien gnanca pì on gardelin.(14/2)

A San Vio le zarese le ga el marìo.

A San Zen, somenza in sen.(12/4)

A Sant’Agnese el fredo passa le sfese. (21/1)

A Sant’Ana el rondon se slontana.(26/7)

A Sant’Ana le nose va in tana.

A Sant’Andrea el fredo el monta in carega.(30/11)

A Sant’Andrea se veste tuta la fameja.

A Sant’Antonio (Abate) on passo* de demonio.(17/1).

A Sant’Antonio dala barba bianca o piova o neve no la manca.

A Sant’Erman le arte* in man. (8/2)

A Sant’Isaco, el formento fora dal saco.(19/10)

A Sant’Ubaldo se fa vanti el caldo.(16/5)

A Sant’Urban el formento el fa el gran.

A Santa ‘Fema, se scumizia la vendema.(s. Eufemia, 16/9)

A Santa Catarina el fredo se rafina. /25/11)

A Santa Catarina el jazo so la pissina.

A Santa Catarina la neve se inchina.

A Santa Caterina se tira zo la scaldina.(25(11)

A Santa Crose, pan e nose.(14/9)

A Santa Fiorenza xe oncora bona la somenza. (27/10)

A Santa Liberata freda l’invernata.(18/1)

A Santa Lucia la note pì longa che ghe sia.(13/12).

A Santa Madalena la nosa xe piena.(22/7)

A Santa Madalena piove apena.

A Santa Madalena se taja l’avena.

A Santa Pologna la tera perde la rogna. (9/2)

A Santa Toscana el riso el va in cana. (14/7)

A Santa Toscana i rondoni se slontana.(14/7)

Ai du passa la nuvola del Perdon. (2/8)

Ai Morti e ai Santi i corvi sbandona i monti e i vien a pascolare ai canpi.

Ai santi veci no se ghe inpiza candele.

Al dì d’i morti la neve xe ale porte.(2/11)

Ala Madona de Agosto rinfresca el bosco.(15/8).

Ala vizilia de San Piero vien fora so mare.(29/6)

Bisogna inpizare na candela al demonio e una a Sant’Antonio.

Candelora, de l’inverno semo fora.

Carnevale e Quarésema, par el pitoco xe la medesema.

Che Dio el ne varda dal seco tra le do Madone.

Chi ciama Dio no xe contento, chi ciama el diavolo xe disperà, chi dise ahimè xe inamorà.

Chi dà ai pòvari inpresta a Dio.

Chi ladra, Dio ghe dona; chi no ladra, pioci e rogna.

Chi sparte e no se ne tien, el Signore no ghe vole gnanca ben.

Co l’Adolorata se va verso l’invernata.

Co’ i ga voltà el messale la messa pì no vale.

Co’ riva le Madone tute le zuche le xe bone.

Co’ se xe morti, San Michele pesa le àneme e i preti i candeloti.

Confessori e bròcoli i xe boni fin a Pasqua.

Da la Befana la rapa xe vana.

Da San Giorgio se sòmena l’orzo. (23/4)

Da San Marco la vigna buta l’arco.(25/4)

Da San Martin a Nadale ogni poareto sta male.

Da San Matia oncora neve par la via.

Da San Matio ogni fruto xe bonio.

Da San Valentin guerna l’ortesin. (14/2)

Dai Santi tote sierpa e guanti.

Davanti al prete, al dotore e a on capitelo càvate senpre el  capelo.

De la Candelora el dì cresse oncora.

De la Salute meti le maneze ale pute.

De la Sensa le granseole fà partensa.

De Pasqua no ghe xe galina che no faza.

De San Luca pianta la rapa e cava la zuca.

De San Martin se sposa la fiola del contadin.

De San Martin se veste el grande e anca el picenin.

De San Michele la piova la bagna la pele.

De San Michele se calza le brute e anca le bele. (29/9)

De San Piero el formento e anca el pero.

De San Tomìo le zornade torna indrio.

De San Valentin fiorisse el spin.

De Sant’Antonio el formento indora. (13/6)

De Sant’Urban la segala conpisse el gran.

De Santa Giustina tuta la ua xe marzemina.

Del Pardon (d’Assisi) se trà la zapa in t’on canton.

Dele volte el Santo xe grande, ma el miracolo xe picolo.

Dio li fà e po’ li conpagna.

Dio manda el fredo secondo i pani.

Dio me varda dala rabia dei boni.

Dio te varda da on magnadore che no beve.

Dio te varda dal vermo del fenocio e da chi che ga on solo ocio.

Dio vede e Dio provede.

Dopo i Santi, fora el tabaro e anca i guanti.

Dopo la crose na pèrtega par le nose.

El miracolo no fà el Santo.

Falo de mèdego, volontà de Dio.

Faustin, poco pan e tanto vin.

Fin a Nadale magnemo verze e rave.

Fin dai Santi sòmena i canpi.

I du Santi del giazo: San Luigino e San Paolino i porta l’Inverno de Giugno.

I ovi xe boni anca dopo Pasqua.

I Santi novi scalza i veci.

Incalmà in onore de San Francesco, se no’l taca de verde el taca de seco.

I Santi de casa no fà miracoli.

L’altissimo de sora ne manda la tenpesta, l’altissimo de soto ne magna quel che resta, e in  mezo a sti du altissimi, restemo povarissimi.

L’aqua de San Gaetano la tole l’afano.(7/8)

L’aqua de San Giacomo la fà miracoli.

L’aqua de San Gregorio fà ranpegare la végna.

L’aqua de San Joani guarisse tuti i malani.

L’aria de San Matìa (24/2) dura fin a San Giorgio, e l’aria de San Giorgio dura fin a  S.Urban.

L’istà de San Martin dura tri dì e on pochetin.

L’omo propone, Dio dispone.

La piova de San Bernardin la roba pan, ojo e vin.

La piova del’Assension fà bela la stajon.

La strigheta mete le feste in sacheta.

La vigilia de San Joani piove tuti i ani.

Le canpane de San Martin vèrze le porte al vin.

Le zuche nate fra le do madone le xe le pì bone.

Nadale col mandolato, i Morti co la fava, Pasqua co la fugazza.

No ghe xe on sabo santo al mondo che la luna no gabia fato el tondo.

No ghe xe polastrina che par le feste de Pasqua no sia galina.

No se pole ‘ndare in paradiso a dispeto di’ Santi.

Novenbre, co San Martin ano novo par el contadin.

Ogni Santo juta.

Ogni Santo vole la so candela.

Par i Santi, neve sui canpi; par i Morti, neve sui orti.

Par l’Anunziata el rossignolo so la saca.

Par l’Anunziata la zuca xe nata.

Par San Barnabà el dì pì longo de l’Istà.

Par San Corado vèrzi la porta al caldo.

Par San Damàso el fredo al toca el naso.

Par San Domin sòmena el contadin.

Par San Fredian la neve la va al monte e al pian.

Par San Gioachin, l’ortolan nel camarin.

Par San Lorenzo la nosa xe fata.

Par San Matio le jornade torna indrio.

Par San Paolo el jazo va al diavolo.

Par Sant’Antonin, poca paja e poco vin.

Par Santa Cristina se sòmena la sajina.

Par Santa Fiorenza xe oncora bona la somenza.

Par Santa Pologna la tera la perde la rogna.

Par Santa Taresa prepara la tesa.

Par tuti i Santi, manegoti e guanti.

Pasqua vegna quando se voia, la vien co la frasca e co la foia.

Pifania, el pì gran fredo che ghe sia.

Piova de San Piero, piova col caldiero.

Piova de San Roco la dura poco.

Quando che l’Anzolo Michele se bagna le ale piove fin a Nadale.

Quando che piove el dì de San Gorgon, piove par na stajon. (9/9)

Quando piove par la Crose, bon el gran, triste le nose.

Quando semo a San Simon, ogni straza la vien bon.

San Bastian ga la viola in man.

San Benedeto ghe ne porta on sacheto*. (21/3)

San Biasio, el fredo va adasio.

San Biasio, ultimo barbon marcante de neve.(3/2)

San Bogo, la torta al fogo.

San Colonban el riva co la neve in man. (21/11)

San Gregorion el pole portare on robalton. (3/9)

San Mauro fà i ponti, Sant’Antonio li ronpe, San Paolo li fonda.

San Paolo ciaro inpinisse el granaro. (25/1)

San Paolo San Paolon, tote su la scala e va a bruscare el vegnon.

San Piero benedisse la tenpesta.

San Prodocimo e San Daniele marcanti de neve. (7/11)

San Valentin dal fredo fin, l’erba la mete el dentin.(14/2)

San Valentin, el jazzo no’l tien pì gnanca on gardelin.

San Vidale, marcante de piova. (28/4)

San Vincenzo, gran fredura; San Lorenzo, gran calura: l’uno e l’altro poco i dura.

Sant’Agostin, daghe el primo pontin. (28/8)

Sant’Agostin, taca le màneghe al bustin.

Sant’Antonin el vien lezièro: ormai semo ale asse sia in stala che in granaro. (10/5)

Sant’Antonio Abate se no ghe xe el jazzo el lo fà, se’l ghe xe el lo desfa.

Sant’Antonio Barbon (Abate) marcante de neve.

Sant’Antonio del paneto el vien col segheto. (13/6)

Sant’Antonio se ga inamorà de on porzeleto.

Sant’Omobon, neve o tenpo bon. (13/11)

Sant’Urban pastore de nuvole.

Santa Barbara benedeta, tien distante el fulmine e la saeta. (4/12)

Santa Eulalìa el fredo la porta via. (12/2)

Santa Fosca, se giazo la trova col fuso la scoa; se giazo no la ghe n’à catà, giazo la fà. (13/2)

Santa Giuliana el fredo se rufiana. (16/2)

Santa Giustina dela sgussetina. (7/10/)

Santa Luzzia el fredo cruzzia.(13/12)

Santa Madaléna, onguenti e balsami la ne insegna. (22/7)

Santa Poinara, la vecia (galina) sora la caponara.

Santi che pissa in tera no ghe n’è.

Scherza co i fanti ma assa stare i Santi.

Se ‘l dì de San Martin el sole se insaca, vendi el pan e tote la vaca; Se ‘l va zo seren, vendi la  vaca e tiente el fen.(11/11)

Se a San Medardo piova, dopo quaranta dì rifà la prova. (8/6)

Se Dio no vole, gnanca i Santi pole.

Se fà belo a San Gorgon la vendema va benon.

Se fà fredo a San Luigino, farà caldo a San Paolino. (21/6-22/6)

Se Nadale vien senza luna, chi ga do vache se ne magna una.

Se no piove a San Medardo piove a San Gervasio. (19/6)

Se no te me vidi de San Giusepe patriarca, o che son perso o che son in aqua. (19/3)

Se piove a Pentecoste, tute le entrate no le xe nostre.

Se piove a San Bàrnaba la ua bianca la va via; se piove da matina a sera, va via la bianca e anca  la nera.

Se piove a San Duane se suga le fontane.

Se piove a San Giorgio ghe sarà carestia de fighi.(23/4)

Se piove a San Gregorion, piove tuta la stajon. (3/9)

Se piove a San Paolo e Piero, piove par on ano intièro. (29/6)

Se piove a San Vito e Modesto, la ua va torla col zesto.(15/6)

Se piove a Sant’Ana, la xe na mana.

Se piove a Sant’Urban ogni spiga perde on gran.

Se piove a Santa Bibiana, piove par quaranta dì e ‘na setimana.

Se piove a Santa Desiderata, casca la ua e resta la grata. (14/6)

Se piove ai quaranta Santi, aqua par altretanti.

Se piove da la Madona, la xe oncora bona.

Se piove de San Duane, fen e paja deventa loame.

Se piove de San Gorgon, sete brentane e on brentanon.

Se piove el dì de San Gorgonio, autuno demonio.

Se piove el dì de Santa Crose el fà cascare le nose.

Se piove par San Vio al vin còreghe drio.

Se piove sole Palme no piove sui ovi.

Se San Michele no se bagna le ale, farà belo fin a Nadale.

Se San Michele se bagna le ale, piove fin a Nadale.

Se Sant’Antonio fa el ponte, San Paolo lo ronpe.

Se vènta* ai tri de Marzo e al dì de San Gregorio, vènta par quaranta dì. (12/3)

Se’l tona el dì de San Duane, le cuche va sbuse e le nosèle vane. (24/6)

 

Numero Proverbi:  250

 

SCHEI: I SCHEI GA SENPRE DÀ PENSIERI…

 

A chi che ga denaro forte, quando l’è vecio se augura la morte.

Al son de la canpana (schei) ogni dona se fa putana.

Ale làgreme de on erede xe mato chi che ghe crede.

A torghene e no metarghene ogni mucio cala.

Articolo quinto: chi che ga i schei ga senpre vinto.

Bisogna fare la spesa secondo l’entrata.

Bon marcà sbrega la borsa.

Botega de canton fà schei ogni cojon.

Cadena tirà fà la pase in ca’.

Chi ara fondo guadagna on mondo.

Chi che bastona el so cavalo bastona la so scarsela.

Chi che dispreza conpra.

Chi che ga paura del diavolo no fà schei.

Chi che ga schei ga senpre rason.

Chi che ghe n’a ghe ne spende.

Chi che paga avanti el trato, servizio mal fato.

Chi fida nel loto no magna de coto.

Chi ga canpi canpa.

Chi no tien conto de on scheo, no vale on scheo.

Chi òrdena paga.

Chi pì spende manco spende.

Chi sbaglia de testa paga de scarsela.

Chi sparagna el gato magna.

Chi sparte e no se ne tien, el Signore no ghe vole gnanca ben.

Chi va al marcà co pochi schei li spende male.

Chi vol vèndare mete in mostra.

Co zento pensieri no se paga on scheo de debito.

Co’ no ghe n’è, spèndarne; co’ ghe n’è tegner da conto.

Co’ piase la roba no se varda la spesa.

Co’ se ga da pagare se cata tuti, co’ se ga da tirare no se cata nissuni.

Co’ se guadagna se magna.

Conpra poco e guadagna tanto.

Da tristi pagadori se tole ogni moneda.

Debito sputanà, debito pagà.

Dove che ghe xe canpagne ghe xe putane.

El bon vin, i schei e la bravura poco i dura.

El malà no magna gnente e ‘l magna tuto.

El marzaro*, prima el fà i schei e dopo la cossienza.

Fare i mistieri che no se conosse i dìnari i deventa mosche.

Fin che dura i bezi*, amighi no manca.   * (schei)

I cojuni del can e i schei del vilan i xe i primi mostrà.

I doluri xe come i schei: chi che li ga se li tien.

I schei fà balare i sorzi.

I schei no i ga ganbe ma i core.

I schei porta l’oca al paron.

I schei vien de passo e i va al galopo.

I siuri ga el paradiso de qua e quelo de là i se lo conpra.

In casa strinzi, in viajo spendi, in malatia spandi.

L’amore xe potente, ma l’oro onipotente.

L’avaro farìa de manco de cagare par no butare via gnanca quela.

L’omo da vin no ‘l vale on quatrin.

L’omo pì bruto xe quelo che ga le scarsèle roverse.

L’oro no ciapa macia.

La coéga cola sol lardo.

La merda fà schei.

La pignata de l’artesan, se no la boje oncuò la boje doman.

La roba no xe de chi che la fà, ma de chi che la gode.

La roba ordenà la vol èssare pagà.

Mèjo ‘vere du schei de mona che passare par massa svejo.

No ghe n’è mai a bastanza se no ghe ne vanza.

No spèndare tuto quelo che se ga, no dire tuto quelo che se sa.

On bel ciapare fà on bel spèndare.

On bon vèndare fà on bon guadagno.

Oro bon no ciapa macia.

Pare che guadagna, fioi che magna.

Quelo che no vien dala porta vien da l’orto.

Salute, amore, schei e tenpo par gòdarli.

Schei de zogo sta on ora par logo.

Schei e amicissia orba la giustissia.

Schei, poderi e canpi e na bela coa davanti.

Se fà spira la man drita, schei da dare; se fà spira la man zanca, schei da tirare.

Senza schei no se spende, senza laoro se dipende.

Senza stola no se confessa, senza schei no se canta messa.

Spendi la moneda par quelo che la vale.

Tuti i mistieri fà le spese.

 

Numero Proverbi: 75

 

STAGION: OGNI PROVERBIO PAR LA SO STAJON

 

A l’istà piove a contrà.

A San Clemente l’inverno mete el dente.(23/11)

Beato l’Istà co tuti i pulzi e i zìmesi che’l ga.

Candelora, de l’inverno semo fora, ma se piove e tira vento de l’inverno semo drento.

Cativo inverno, cativo istà.

Chi no sa cossa che xe l’inferno, fassa el cogo d’istà e ‘l caretier d’inverno.

Co l’Adolorata se va verso l’invernata.

Co’ canta el ciò xe finio de far filò.

Co’ névega sola foja l’è on inverno che fa oja.

Co’ te senti le racolete cantare xe rivà la Primavera.

De istà ogni beco fà late, de inverno gnanca le bone vache.

El capon xe senpre de stajon.

El marangon laora senza stajon.

Febraro inevà fà bela l’istà.

Fin a Nadale fredo no fà: braghe da istà; dopo Nadale el fredo xe passà, braghe da istà.

I dì dela merla l’inverno te dà na sberla.

I du Santi del giazo: San Luigino e San Paolino i porta l’Inverno de Giugno.

In istà la vache va in montagna a fare le siore, e le siore va in montagna a fare le vache.

L’inverno l’è el boia di’ veci, el purgatorio di’ putei e l’inferno di’ poariti.

L’istà de San Martin dura tri dì e on pochetin.

L’onbra d’istà fà male ala panza d’inverno.

La piova de primavera ghe ronpe la rogna ala tera.

La piova del’Assension fà bela la stajon.

Miti le straze int’on canton che vegnarà la so stajon.

Né de inverno, né de istà tabaro e onbrela mai a ca’.

O dal cao o dala coa l’inverno vol dire la soa.

Pan, vin e zoca, lassa pur che’l fioca.

Par el seco xe bona anca la tenpesta.

Par San Barnabà el dì pì longo de l’Istà.

Par San Matio le jornade torna indrio.

Pèrsego e melon tuto ala so’ stajon.

Piova d’Istà, beati che che la ga.

Piove pì àneme al’inferno che neve de inverno.

Primavera de Jenaro la ruina el persegaro.

Primo de Agosto, capo de inverno.

Quando che piove el dì de San Gorgon, piove par na stajon. (9/9)

Quando che te magni la nèspola, pianzi.

Quando che’l sorgo rosso el mostra el muso, xe ora de tore la roca e el fuso.

Quando el Venda fa el pan, se no piove oncuò, piove doman.

Quando le done fa la lissia sola via, l’inverno sbrissa via.

Se piove a San Gregorion, piove tuta la stajon. (3/9)

Stajon de erba, stajon de merda.

Stropa longa, inverno longo; stropa curta, inverno curto.

Vin, done e maroni bisogna gòdarli so’ la so stajon.

 

Numero Proverbi 44

 

SPOSI: TUTO SOL SPOSALIZIO

 

A tola e leto no se porta rispeto.

Amarse, ma no buzararse.

Assa che la mojère la comanda in casa: solo cussì la te struca e la te basa.

Beata chela sposa che la prima che la ga la sia na tosa.

Chi che ga na bela mojère no la xe tuta soa.

Chi che se marida de carnevale slonga le ganbe e scurza le bale.

Chi che se marida e no sa l’uso, fa le ganbe fiape e longo ‘l muso.

Chi che se marida vecio sona de corno.

Chi che vole justare le braghe co le còtole dela mojère le gavarà senpre rote.

Chi dise sposa dise spesa.

Co’l galo canta da galina, la casa va i ruina.

Conpare de anelo pare del primo putelo.

De San Martin se sposa la fiola del contadin.

Dentro de ogni matrimonio se sconde el demonio.

Dio li fà e po’ li conpagna.

Dopo i confeti se vede i difeti.

El matrimonio no xe belo se no ghe xe gnanca on putelo.

El primo ano se ghe vole tanto ben che la se magnaria, el secondo se se ciama grami de no verla magnà.

Fin che na bela xe vardà, na bruta xe maridà.

Fumo e dona ciacolona fà scanpare l’omo de casa.

I fioi vien dal cuore, el marìo dala porta.

L’omo fà la dona e la dona fà l’omo.

L’omo maridà porta quatro “p”: pene, pensieri, pentiminti e pecati.

La bona mojère fà el bon marìo.

La prima fachina, la seconda regina.

La prima xe matrimonio, la seconda conpagnia e la terza na eresia.

La roba marida la goba.

Leto fato e fémena petenà, la casa xe destrigà.

No ghe xe matrimonio che no ghe entra el demonio.

Novantanove maridà fà zento bechi.

Omo maridà, oselo in gabia.

Quando che’l Signore vuole castigare uno el ghe manda l’ispirazion o de sposarse, o de torse on musso o      on’ostaria.

Quando Dio vol castigar on omo el ghe mete in testa de maridarse.

Quando la mojère se mete le braghesse, al marìo no ghe resta  che le còtole.

Scarpe grosse e marìo bruto, va tranquila dapartuto.

Se te ghe na bruta mojere, va in leto al scuro.

Signore, fà ca no sia beco; se ghe so’, fà ca no lo sapia; se lo sò, fà ca no ghe bada.

Zapa sposa baile.

 

Numero Proverbi: 38

 

VIN:  TUTO SOL VIN E TORNO VIA

 

A chi che no ghe piase el vin , che Dio ghe toga anca l’aqua.

A San Baldoin se fa el vin.

A San Crispin se pesta el vin.(25/10)

A San Martin casca le foje e se beve el bon vin.

A San Martin el mosto deventa vin.

A San Martin se spina el bon vin.

A San Martin, castagne e vin.

A San Pelegrin, poca paja e poco vin. (5/5)

Aqua de Agosto, miele e mosto.

Aqua setenbrina, velen par la cantina.

Bianco e moro méname a casa.

Bieta e vin juta el segantin.

Bivi el vin e lassa l’aqua al mulin.

Bon fogo e bon vin scalda el camin.

Bon vin, fola longa.

Bona bota bon vin, trista bota tristo vin.

Bota che canta la xe voda.

Bota piena, cèsa voda.

Chi che ghe piase el vin no’l lo buta in aseo.

Chi vol fare mosto zapa la tera de Agosto.

Co’l cavéjo tra al bianchin, assa la dona e tiente el vin.

Co’l mulin xe senza aqua me toca bévare aqua; co’ l’aqua fà ‘ndare el mulin bevo del bon vin.

Dona bela e vin bon xe i primi che te assa in abandon.

Dove che no ghe xe vin da travasare e farina da far pan staghe lontan.

El bon vin fà bon sangue.

El bon vin se trova dal paroco.

El bon vin se vende a la soja.

El bon vin xe ciaro, amaro e avaro.

El bon vin, i schei e la bravura poco i dura.

El pèrsego col vin, el figo co l’aqua.

El pesse ga da noare tre volte: prima ‘ntel’aqua, dopo ‘ntel’ojo e la terza ‘ntel vin.

El primo fiore xe quelo del vin.

El riso nasse da l’aqua e ‘l ga da morire sol vin.

El vin al saore, el pan al colore.

El vin amaro tièntelo caro.

El vin bon no ga bisogno de frasca.

El vin de casa no inbriaga.

El vin xe bon par chi che lo sa bévare

El vin xe el late di’ veci.

Faustin, poco pan e tanto vin.

Formajo, pan bianco e vin puro fà el polso duro.

Giugno, Lujo e Agosto, né dona, né aqua, né mosto.

L’omo da vin no ‘l vale on quatrin.

L’ultimo goto xe quelo che inbriaga.

La bota la dà el vin che la ga.

La bota la fà el vin.

La bota piena tase.

La piova de San Bernardin la roba pan, ojo e vin.

Le canpane de San Martin vèrze le porte al vin.

Majo piovoso, vin costoso.

Maroni e vin novo, culo mio te provo.

Maroni e vin novo, scoreze de fogo.

Marsoni friti e polentina, on fià de vézena e vin de spina.

No bisogna domandarghe a l’osto se’l ga bon vin.

Ogni vin fà alegria se’l se beve in conpagnia.

Ovo de on’ora, pan de on dì, vin de on ano, dona de quìndese e amigo de trenta.

Pan che canta, vin che salta e formajo che pianza.

Pan fin che’l dura, vin a misura.

Pan padovan, vini visentini, tripe trevisane e done veneziane.

Pan, vin e zoca, lassa pur che’l fioca.

Par Sant’Antonin, poca paja e poco vin.

Pitosto che spàndarghene on jozo xe mejo bévarghene on pozo.

Polenta nova e osei de riva, vin de grota e zente viva.

Quando a Novenbre el vin no xe pì mosto, la pitona xe pronta  par el ‘rosto.

Quando che l’omo xe pien de vin el te parla anca in latin.

Quando che’l vin no xe pì mosto, la castagna xe bona a rosto.

Quando se travasa se beve.

Se Giugno sguaza poco vin in taza.

Se no fa caldo a Lujo e Agosto sarà tristo el mosto.

Se piove par San Vio al vin còreghe drio.

Se te ghe poco vin, véndite anca el tin.

Vin de fiasco: ala sera bon, ala matina guasto.

Vin novo, braghe leste.

Vin vecio e dona zòvane.

Vin, done e maroni bisogna gòdarli so’ la so stajon.

Vinti munari, vinti sartori e vinti osti fà sessanta ladri.

 

Numero Proverbi: 76

 

 

FONTE: da DIALETTO VENETO EL SITO DEL MAESTRO

Link: http://www.dialetto-veneto.it/Proverbi.htm
Link: http://www.dialetto-veneto.it

CHE COS’È UNA MOSCHEA E CHE COSA VUOL DIRE COSTRUIRE UNA MOSCHEA

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Lì si prega e insieme si fa politica. Le avvertenze di un grande esperto gesuita. Pubblicate dalla “Civiltà Cattolica” ma anche, un mese prima, dal giornale della Lega.

 

FIRMA di Khalil Samir S.I.

 

(s.m.) Le seguenti “Note sulla moschea” sono apparse sull’ultimo numero della “Civiltà Cattolica”, la storica rivista dei gesuiti di Roma. Ciò che distingue la “Civiltà Cattolica” è che prima di andare in stampa le sue bozze passano l’esame della segreteria di Stato vaticana. La quale taglia, modifica, aggiunge quanto ritiene opportuno. Per questo ogni articolo che appare su questa rivista è da considerarsi “autorevole”. In quanto autorizzato dai vertici della Chiesa, di cui riflette il pensiero.

Ebbene, un dato curioso di questo articolo è che esso non era un inedito. Ma era già uscito quasi per intero su un altro giornale un mese prima. Quest’altro giornale è “la Padania”, il quotidiano della Lega. E la Lega è il partito che si è battuto nei mesi scorsi, con molto rumore, contro la cessione da parte del comune di Lodi di un terreno alla comunità musulmana, per costruirvi una moschea.

La “Padania” ha pubblicato l’articolo il 15 febbraio 2001 nella pagina intitolata “Le idee”. Premettendo che le era stato «segnalato da un lettore di Sesto Calende» che a sua volta l’aveva letto in una ancor precedente pubblicazione. Nella versione uscita sulla “Padania” figurano anche alcune righe che non si ritrovano nel testo della “Civiltà Cattolica”: «Non si capisce bene in base a quale ragione un’amministrazione locale dovrebbe regalare il terreno o una parte della costruzione».

Sta di fatto che ai capi della Lega l’articolo è piaciuto. Così come è piaciuto ai gesuiti della “Civiltà Cattolica”. E ai vertici vaticani… In effetti è un testo di grande interesse, che davvero esige d’esser letto, indipendentemente dal suo strano pellegrinare da testata a testata.

 

Khalil Samir, l’autore, è un gesuita arabo, nato in Egitto. È fondatore e direttore del Centro di documentazione e ricerche arabe cristiane dell’università Saint Joseph di Beirut, dove insegna all’Istituto islamo-cristiano. A Roma, insegna islamologia al Pontificio istituto orientale e al Pontificio istituto di studi arabi e di islamistica. Ecco, integrale, il suo scritto, per gentile concessione della “Civiltà Cattolica”:

 

 

NOTE SULLA MOSCHEA: CHE COS’È UNA MOSCHEA E CHE COSA VUOL DIRE COSTRUIRE UNA MOSCHEA

 

 

di Khalil Samir S.I.

(da “La Civiltà Cattolica” del 17 marzo 2001, pagine 599-603)

 

Che cos’è una moschea

 

Ultimamente si è parlato di moschee in Italia; ma sull’argomento continua a permanere una cappa di genericità e approssimazione. Quando si discute sull’opportunità di costruire una moschea o di concedere terreni a questo scopo, è necessario anzitutto non dare per scontata la conoscenza dell’oggetto della discussione. La moschea non è una “chiesa” musulmana, ma un luogo che ha nell’islàm la sua funzione e le sue norme. Perciò si deve guardare all’islàm per capire che cosa essa è.

 

Nella tradizione araba esistono due termini per indicare la moschea: masgid (passato in spagnolo sotto la voce “mezquita” e di là nelle lingue europee) e giâmi‘. Quest’ultimo vocabolo è il più diffuso nel mondo arabo-islamico. La prima parola deriva dalla radice sgd che significa “prostrarsi”, la seconda dalla radice gm’ che significa “radunare”. La moschea (giâmi’) è il luogo dove la comunità si raduna, per esaminare tutto ciò che la riguarda: questioni sociali, culturali, politiche, come anche per pregare; tutte le decisioni della comunità si prendono nella moschea. Voler limitare la moschea a “un luogo di preghiera” è fare violenza alla tradizione musulmana.

 

Il venerdì (yawm al-giumu’ah) è il giorno in cui la comunità si raduna (come indica il nome giumu’ah). Si raduna a mezzogiorno per la preghiera pubblica, seguita dalla khutbah, cioè il discorso, che non è una predica. Nella khutbah vengono approfondite la questioni dell’ora presente: politiche, sociali, morali ecc. Il venerdì non è il giorno in cui non si lavora, come il sabato degli ebrei o la domenica dei cristiani, ma il giorno in cui i musulmani si ritrovano insieme come comunità. Ancora oggi, in Arabia Saudita, il venerdì è un giorno lavorativo; si chiudono i negozi soltanto all’ora del raduno in moschea a mezzogiorno.

 

In molti Paesi musulmani, per esempio in Egitto, che è oggi il più popoloso Paese musulmano arabo, tutte le moschee sono sorvegliate il venerdì e le più importanti sono circondate dalla polizia speciale. Il motivo è semplice: le decisioni politiche partono dalla moschea, durante la khutbah del venerdì. Nella storia musulmana, quasi tutte le rivoluzioni e i sollevamenti popolari sono partiti dalle moschee. Lo jihâd, cioè “la guerra sul cammino di Dio” (fî sabîl Allâh) che obbliga ogni musulmano a difendere la comunità, è proclamata sempre nella moschea, alla khutbah del venerdì. In alcuni Paesi musulmani, il testo della khutbah dev’essere presentato prima alle autorità civili visto che gli imâm (che presiedono le riunioni della comunità) sono funzionari statali1.

 

Non è solo luogo di culto. E’ il luogo della politica

 

È dunque scorretto, parlando della moschea, parlare unicamente di “luogo di culto”. Com’è scorretto, parlando della libertà di costruire moschee, farlo in nome della libertà religiosa, visto che non è semplicemente un luogo religioso, ma una realtà multivalente (religiosa, culturale, sociale, politica ecc.). Non si deve poi dimenticare che il luogo dedicato alla preghiera del venerdì è considerato dai musulmani spazio sacro e rimane per sempre appannaggio della comunità, la quale decide chi ha facoltà di esservi ammesso e chi invece lo profanerebbe. Per questo motivo non si può prestare un terreno per 50 anni, per esempio, per edificarvi una moschea; questo terreno non potrà mai più essere reso.

 

Esistono spesso, nelle città dei Paesi musulmani, piccoli “luoghi di preghiera”, chiamati di solito musallâ (preghiera), da salât. Sono come “cappelle” che possono contenere circa una cinquantina di persone e che si trovano spesso al pian terreno di una casa, al posto di un appartamento. Questi luoghi, più discreti, sono generalmente utilizzati quasi unicamente per la preghiera del mezzogiorno, permettendo alla gente della strada o degli edifici vicini di pregare in pace.

 

Le moschee hanno normalmente un minareto (manârah), da dove il muezzin (mu’abhdhin) lancia l’appello alla preghiera (adhân). I minareti hanno una funzione pratica e sono leggermente più alti delle case che li circondano. Hanno assunto spesso nella storia una funzione simbolica, di affermazione della presenza musulmana, e talvolta una funzione politica di affermazione della superiorità dell’islàm sulle altre religioni. Il loro scopo essenziale è di permettere alla voce umana di giungere a chi abita vicino.

 

In questo secolo, si sono spesso posti altoparlanti sui minareti (soprattutto se c’è una chiesa vicina o un quartiere cristiano), e i muezzin hanno aggiunto altre cose all’appello alla preghiera (adhân), prolungandolo. Queste innovazioni sono contrarie alla tradizione musulmana (la sunnah) e i Paesi musulmani rigorosi le condannano, come per esempio l’Arabia Saudita, anche se la condanna non cambia le abitudini. In altri Stati, come per esempio l’Egitto, l’uso degli altoparlanti (a tutto volume) è limitato unicamente all’appello (che dura circa 2 minuti) ed è vietato per la preghiera dell’alba (salât alfagr), divieto di fatto non osservato. L’uso dei registratori per l’appello, che si diffonde in molti luoghi, è considerato contrario alla Tradizione.

 

Chi le finanzia?

 

Infine è necessario chiedersi chi finanzi le moschee e i centri islamici. È risaputo che gran parte delle moschee e dei centri islamici in Europa sono finanziati da Governi musulmani, in particolare da quello dell’Arabia Saudita, che perciò ha il diritto di imporre i suoi imâm. Ora, è ben noto che nel mondo islamico sunnita l’Arabia Saudita rappresenta la tendenza più rigida, detta wahhabita (da ‘Abd al-Wahhâb, 1703-92). Non sono quindi questi imâm che potranno aiutare gli emigrati a inserirsi nella società occidentale, né ad assimilare la modernità, condizioni necessarie per una convivenza serena con gli autoctoni.

 

Alcuni elementi di giudizio

 

Non è possibile né giusto impedire ai musulmani di avere luoghi di preghiera in Occidente. Sarebbe probabilmente più adatto al contesto sociologico degli emigrati (che rappresentano la stragrande maggioranza dei musulmani in Italia) avere musallâ, ossia “cappelle”, dove potrebbero ritrovarsi più comodamente per pregare. Sarebbero anche meno costose per loro. Rimane un rischio: la moltiplicazione dei piccoli luoghi di preghiera rende più difficile il controllo su quanto vi si svolge.

 

La moschea, in quanto centro socio-politico-culturale musulmano, non può entrare nella categoria dei “luoghi di culto”, non essendo esclusivamente un luogo di preghiera. Alla pubblica amministrazione spetta studiare come esercitare un certo controllo su tali centri, vista la loro funzione politica tradizionale.

 

L’opposizione che si vede un po’ dappertutto in Europa riguardo all’edificazione di moschee può provenire dalla xenofobia, ma è anche probabile che derivi dal timore che essa sia un atto politico di affermazione di un’identità diversa sotto tutti gli aspetti, troppo estranea alla cultura e alla civiltà occidentale.

 

Se un tale centro musulmano potesse aiutare gli emigrati a integrarsi nella società italiana locale e nazionale, con corsi adatti e altri servizi, sarebbe da incoraggiare, poiché lo scopo è di costituire insieme, emigrati e autoctoni, una società comune e solidale. Potrebbe essere incoraggiata (anche materialmente) la formazione di gruppi o associazioni misti, composti da emigrati (musulmani e non musulmani) e autoctoni, per rinforzare l’integrazione dei primi nella società italiana e l’apertura dei secondi agli emigrati. Ma, tenendo conto della tradizione musulmana multisecolare di non distinguere religione, tradizioni, cultura, vita sociale e politica, sembra importante che i responsabili si informino bene per operare queste distinzioni e siano molto attenti a non incoraggiare la politicizzazione (sotto qualunque forma) dei gruppi di emigrati (musulmani e non musulmani).

 

Infine è utile notare un piccolo particolare: secondo i dati ufficiali, gli emigrati musulmani rappresentano circa un terzo di tutti gli immigrati in Italia. Eppure, fanno parlare di sé molto più degli altri emigrati, che sono la maggioranza (i due terzi). Ci sembra che il motivo sia proprio la tendenza dei musulmani a politicizzare la loro presenza, a renderla visibile (sia per tendenza naturale, sia perché esistono potenti lobbies di musulmani italiani o stranieri). Sono questa politicizzazione e questa tendenza ad affermare la propria identità come diversa dagli altri che suscitano le reazioni di rigetto o di rifiuto. Non sarebbe più conforme agli interessi dei musulmani stessi cercare di vivere la loro vita (e la loro fede) in maniera discreta e integrata?

 

Conclusione

 

Da ciò che abbiamo detto si possono trarre alcune conclusioni.

 

Tenuto conto della natura polivalente (e spesso politica) della moschea nella tradizione musulmana, la costruzione di moschee, contrariamente a quella delle chiese, può essere un atto politicamente ambivalente. Potrebbe favorire il contrasto tra la popolazione musulmana (spesso costituita da immigrati) e quella non musulmana (generalmente costituita da italiani autoctoni), oppure favorire l’integrazione della popolazione musulmana nel tessuto della società italiana. Perciò tocca alle autorità civili discernere, caso per caso, le possibilità di successo di questa seconda ipotesi, ed enunciare le condizioni che favoriscano il raggiungimento di tale scopo, che cioè la moschea serva ad aiutare i musulmani a integrarsi nella loro nuova società.

 

Questo si potrebbe ottenere con diverse misure concrete: proponendo corsi di lingua italiana (anziché solo di lingua araba); assicurando servizi sociali per aiutare gli emigrati ad avere una vita più dignitosa e più integrata; offrendo servizi particolari alle donne, visto che spesso non partecipano agli incontri misti, ma nello stesso tempo incoraggiando la loro integrazione in una società mista; esigendo la distinzione tra centro culturale e luogo di preghiera; controllando la khutbah (spesso tradotta erroneamente con “predica”) fatta nel quadro della preghiera di mezzogiorno del venerdì; assicurandosi che la distinzione, fondamentale in Italia, tra religione e politica sia chiara, e aiutando la comunità musulmana a mantenerla.

 

No ai non residenti

 

Nell’autorizzare la costruzione di una moschea è ragionevole tener conto dei cittadini musulmani della zona in questione, per decidere della sua dimensione. Non sembra invece ragionevole tener conto dei non residenti, cioè di chi non ha fatto l’opzione di vivere in questo Paese e di impegnarsi ad assumere tutti gli obblighi che ne derivano, poiché lo scopo ultimo è creare una comunità solidale tra gli italiani e chi è emigrato in Italia.

 

(da “La Civiltà Cattolica” del 17 marzo 2001, pagine 599-603. Nella foto sotto il titolo, la moschea di Dardasht a Isfahan, del 1367)

 

 

Fonte: visto su CHIESA.ESPRESSOONLINE.IT

Link: http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/7360

 

SCOPERTA IN TURCHIA UNA MISTERIOSA DIVINITÀ

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CONFONDE GLI ESPERTI

Una scultura raffigurante una misteriosa divinità romana, mai osservata prima d’ora, è stata rinvenuta durante gli scavi di un tempio romano in Turchia del 1° secolo a.C.

 

 

L’immagine di un enigmatico dio barbuto che emerge da quella che sembra una pianta o un fiore è stata scoperta durante gli scavi di un tempio romano del 1° secolo a.C. in Turchia, nei pressi del confine con la Siria.

 

Si tratta di una divinità completamente sconosciuta agli esperti. “È chiaramente un dio, ma al momento è difficile dire di chi esattamente si tratta”, ha confessato a Live Science Micheal Blömer, archeologo dell’Università di Muenster, Germania, impegnato nel sito.

 

Il rilievo era inglobato in un muro di sostegno realizzato successivamente per l’edificazione di un monastero cristiano medievale. “Ci sono alcuni elementi che ricordano le antiche divinità del Vicino Oriente, quindi potrebbe essere una divinità più antica del pantheon romano”, continua Blömer.

 

L’archeologo tedesco non è il solo ad essere confuso; più di una dozzina di esperti contattai da Live Science non hanno idea a quale divinità appartenga l’immagine scoperta in Turchia.

 

 

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Il tempio si trova su una montagna nei pressi della moderna città di Gaziantep, in una delle più antiche regioni della Terra abitate stabilmente, crocevia, per millenni, di diverse culture, dai Persiani agli Ittiti, fino ai Siri. Durante l’età del bronzo, la città si trovava sulla strada che collegava la Mesopotamia al Mediterraneo Antico.

 

Nel 2001, quando la squadra di Blömer ha iniziato a scavare, il sito era quasi invisibile in superficie. Nel corso degli anni, l’accurato scavo ha portato alla luce i resti di una struttura dell’età del bronzo antica e un tempio romano dedicato a Giove Dolicheno.

 

Di origine hittita, era venerato come dio della fertilità e della folgore. Fu identificato anche come Ahura Mazda della religione zoroastriana.

Il culto fu importato a Roma dalle legioni in ritorno dalla guerra insieme alla religione mitraica diffondendosi in Italia tra il II e il III sec.

Come Mitra aveva un culto misterico in cui si riteneva che il dio propiziasse il successo e la sicurezza dell’organizzazione militare. Generalmente è rappresentato con una scure e una folgore in mano.

 

Dopo che il tempio fu distrutto, i cristiani del medioevo costruirono sulle fondamenta del sito il monastero di San Salomone, e dopo le Crociate, il sito divenne il luogo di sepoltura di un importante santo musulmano.

 

La squadra di Blömer stava scavando una delle vecchia mura del contrafforte, quando è venuto alla luce il rilievo coperto dall’intonaco medievale.

 

L’effige raffigura un uomo barbuto che emerge da quella che sembra una pianta. Alla base dell’immagine sono raffigurate una mezzaluna, una rosetta e una stella. La parte alta del rilievo è danneggiata, ma quando era completa doveva raggiungere l’altezza di un essere umano. “È stata piuttosto grande la sorpresa quando abbiamo trovato il bassorilievo”, racconta Blömer.

 

La misteriosa divinità potrebbe essere la romanizzazione di un dio locale del Vicino Oriente; gli elementi agricoli suggeriscono un legame con i riti di fertilità. Ma oltre a questo, l’identità della divinità sconcerta gli esperti.

 

Secondo gli esperti, la migliore possibilità per identificare il dio enigmatico è quella di trovare una rappresentazione simile da qualche altra parte del sito, accompagnata con una scritta che ne descriva l’identità.

 

 

 

Fonte: visto su IL NAVIGATORE CURIOSO del 11 dicembre 2014

Link: http://www.ilnavigatorecurioso.it/2014/12/11/una-misteriosa-divinita-romana-confonde-gli-esperti/

 

GROTTA SOLINAS DI FUMANE: LA PARTE NASCOSTA DELLA GROTTA RIVELA ALTRI SEGRETI DEGLI HOMOS SAPIENS

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La parte nascosta della Grotta rivela altri segreti dei Sapiens

 

I nuovi scavi riportano alla luce conchiglie, ossa lavorate e ocra con cui gli ominidi disegnarono un animale e il famoso sciamano

 

Marco Peresani-grotta-solinas-fumane

Il curatore Marco Peresani davanti al nuovo scavo effettuato in grotta FOTO AMATO

 

 

I nuovi scavi riportano alla luce conchiglie, ossa lavorate e ocra con cui gli ominidi disegnarono un animale e il famoso sciamano

 

«Siamo soddisfatti dei risultati: la Grotta di Fumane produce e restituisce un indotto con caduta internazionale».

Queste le parole del professor Marco Peresani dell’Università di Ferrara alla presentazione dei risultati della campagna di scavi 2014, chiusa in questi giorni.

Una presentazione avvenuta nel sito archeologico, non come al solito in sala consiliare con le slides, per mostrare ai molti intervenuti la parte terminale dell’antro, nascosta dal muro eretto nel 2006 e abbattuto proprio quest’anno.

 

È stata un’estate terribile e difficile per l’equipe di dottorandi, alcuni anche stranieri, che hanno effettuato gli scavi con competenze diverse.

Le piogge continue hanno creato non poche difficoltà, tanto che la grotta si presenta ancora oggi coperta da teli di plastica, a mo’ di vele, per raccogliere il continuo e abbondante gocciolamento dal soffitto dentro contenitori, per poi incanalare l’acqua in tubi.

Addirittura è stato messo a punto un macchinario che asciuga con aria calda i setacci e i reperti per non farli ammuffire, non potendo infatti esporli all’aria.

«Il materiale raccolto è stato insacchettato ancora ricoperto di fango», ha raccontato Peresani. «A novembre verrà consegnato all’Università di Liegi, che ci sostiene nello scavo, per le prime analisi». L’università belga è specializzata nello studio dei microresidui di tipo organico sugli strumenti di pietra ed osso.

 

Ad effettuare gli scavi al di là del muro è stata Camille Jéquier, che ha conseguito il dottorato proprio sugli strumenti in osso: «Come prevedibile, abbiamo trovato molte ossa di animali, anche resti di pasto e ossa lavorate. Ma anche carboni, probabilmente scivolati dai focolari che si trovano nella grotta vera e propria. Bisognerà attendere gli esiti che arriveranno a gennaio».

 

Cosa sorprendente, è stata trovata moltissima ocra rossa, su tutto il pavimento, quasi un tappeto fino in fondo alla cavità. La stessa con cui i primi Sapiens avevano disegnato sul soffitto un animale, per la precisione un mustelide, e il famoso sciamano. Ocra dei Lessini. E ancora sono state ritrovate una quindicina di conchigliette di madreperla marine, alcune forate, provenienti dal mar Adriatico o forse dal mar Ligure, che allora probabilmente era più vicino. Conchiglie che si aggiungono a quelle trovate anni fa. I Sapiens barattavano la selce, di cui era ed è ricco il territorio della Valle dei Progni, con queste rosee conchiglie, per abbellire i loro abiti, dimostrando che gli ominidi si spostavano anche per diverse centinaia di chilometri.

 

«Bisognerà capire a cosa serviva tutta questa ocra», ha detto Peresani. «Ogni reperto serve a ricostruire tutto il quadro d’insieme. Abbiamo anche scavato e analizzato una piccola parte in grotta, che era stata iniziata venticinque anni fa dal professor Mauro Cremaschi dell’università di Milano, uno strato di 48mila anni fa, dove abbiamo individuato due livelli, uno scuro per la presenza di focolari e l’altro chiaro per la caduta di materiale, entrambi in ottimo stato di conservazione».

 

Ancora analisi, dunque, per rispondere a tante domande stagionalità e ritmi di frequentazione nella grotta, a volte incostanti per cali demografici o fluttuazioni climatiche. Da fare i conti sempre con i finanziamenti e gli sponsor.

Guido Pigozzi, presidente della Comunità Montana, ha lamentato il bilancio bloccato; Federica Gonzato della Soprintendenza la carenza di fondi.

Ma tutti hanno riconosciuto la necessità di valorizzare un sito d’interesse europeo.

 

Giancarla Gallo

 

 

Fonte: ars di Giancarla Gallo, da L’Arena di Verona del 3 settembre 2014

Link: http://www.larena.it/stories/4542_fumane/852317_la_parte_nascosta_della_grotta_rivela_altri_segreti_dei_sapiens/

 


ANCHE LE BARCHE AVEVANO GLI OCCHI…

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Hanno un che di misterioso e di arcano, queste imbarcazioni tradizionali dell’arcipelago di Malta, i luzzu, barche di pescatori dagli scafi coloratissimi: rossi, blu o gialli, che sulla prua portano dipinti un paio d’occhi verdi o azzurri. Sono gli occhi di Osiride, decorazioni beneaugurali che si trovavano già sulle barche di greci e fenici. Venivano pitturati per allontanare le tempeste e scongiurare una pesca infruttuosa.

 

 

 

Perché … cosa sono questi grandi e misteriosi occhi che ci guardano dalla prua delle nostre vecchie lancette o dei vecchi gozzi? …Ebbene, essi sono e si chiamano “occhi apotropaici” (dal greco apotròpaios, derivato di apotròpein che significa allontanare), che, cioè, allontanano gli influssi malefici.

 

Anche oggidì, frequentando appartate località, ove il lavoro marinaro sia rimasto presente in dimensione “non industriale” ma quale attività più o meno individuale (pesca e trasporto locali p.e.), si può notare la sopravvivenza d’una caratteristica un tempo universale in quei mari ove fiorirono le più antiche civiltà, quali sono infatti i mari cinesi e tutto il Mediterraneo: si tratta appunto degli occhi apotropaici, dipinti, uno a dritta ed uno a sinistra, sulla prua dei navigli.

 

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L’uso di questa particolare “decorazione” si perde nella notte dei tempi, sia nei mari orientali che in quelli occidentali; è ben noto, infatti, che in Mediterraneo, per esempio, sia Fenici che Greci non mancavano mai di fregiare le loro prore con tali occhi. A quei tempi essi servivano a tener lontani dal bastimento gli spiriti maligni, né più né meno come facevano gli occhi che troviamo dipinti su coppe da vino greche già del VI sec. a.C. allo scopo d’impedire a tali spiriti l’entrata nel corpo del bevitore insieme col vino.

 

Col passare dei secoli gli spiriti rimasero spiriti nei mari orientali, mentre in occidente subirono un’evoluzione, lasciando il posto al cosiddetto malocchio, contro il quale gli occhi furono considerati valido ed indispensabile antidoto da una cultura comunque superstiziosa.

 

Quando poi anche il malocchio non fu più motivo “presentabile” per la sopravvivenza di tali occhi, il buon marinaro, che nel proprio legno ha sempre visto qualcosa di vivente, giustificò l’esistenza degli occhi affermando che senza di essi la barca non vedeva e non avrebbe più potuto evitare gli ostacoli (che a mare, comunque, spesso si evitano solo per buona sorte).

 

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L’occhio c’era sempre stato e, comunque, doveva continuarci a stare, tant’é vero che nelle marinerie più profondamente “religiose” pur di trovare una motivo per mantenercelo si sostituì la pupilla con una “stella maris” o addirittura con l’immagine di un santo protettore.

 

E quando a fine ottocento s’imposero i bastimenti di ferro (per la maggior parte, allora, costruiti in Nordeuropa) e gli occhi non vi furono dipinti, il marittimo mediterraneo non rinunciò affatto all’atavico concetto: gli occhi di cubia del bastimento in ferro per decenni costituirono per lui l’evoluzione rappresentativa degli occhi apotropaici.

 

 

Fonte: visto su OTTANTE BLOG DEL MARE del 25 luglio 2009

 

Link: http://www.ottante.it/blog/2009/07/anche-le-barche-avevano-gli-occhi/

 

 

 

IL VERONESE ENRICO BERNARDI COSTRUTTORE DELLA PRIMA AUTOMOBILE A BENZINA DEL MONDO

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Enrico Bernardi guida sulle strade di  Verona la  prima auto a benzina del mondo

 

 

La storia di Enrico Bernardi è la storia esemplare di un pioniere dell’automobile, che tanto fece per portare sulle strade di allora (era il 1898) le prime “carrozze” che si muovevano a quattro ruote senza l’ausilio di un traino di cavalli.

 

Strade polverose, poco più che piste bianche, ma che già vedevano apparire i primi mostri che si sfidavano su raid estenuanti per allora, come la Torino-Asti Alessandria-Torino, o la Verona-Brescia-Mantova-Verona. Ancora pochi anni e le auto avrebbero dominato le strade d’Europa.

 

Intanto Enrico Bernardi, veronese, nato nel 1841, inventava carburatori, valvole di aspirazione, albero a camme, camera di compressione. E ancora: la lubrificazione, il carter ermetico, il raffreddamento ad acqua. Oltre, naturalmente, al cambio, alla frizione, allo sterzo. Insomma, l’automobile.

 

Purtroppo furono i più veloci (e pratici) Daimler e Benz ad ottenere il riconoscimento delle proprie invenzioni ed a brevettarle prima di lui.

 

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L’auto di Bernadi motorizzata “PIA” presso la  sede centrale dell’ACI di Verona

 

 

Nel 1884 realizzava a Quinzano di Verona il primo prototipo di veicolo con motore a benzina nel mondo, con tre ruote, azionato da “PIA” un motore di piccola potenza. (al motorino iniziale diede il nome della figliola Pia) Il prototipo fu poi presentato all’esposizione internazionale di Torino del 1884 ed è attualmente conservato presso la facoltà di ingegneria a Padova.

 

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Nel 1894 Enrico Bernardi realizzava il suo veicolo con motore a benzina e, per produrlo, nello stesso anno veniva fondata la Miari & Giusti, prima fabbrica italiana di automobili.

 

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Il motore originale  “PIA”

 

Di lui restano pochi ricordi: le sue auto si limitarono a qualche conquista locale, ma non superarono lo scoglio del 1900.

E, per lui, nemmeno una lapide: la sua tomba, infatti, non ha resistito al passare degli anni.

 

 

 

Fonte: liberamente tratto da srs di Federica Ameglio

Link: http://milleitinerari.blogspot.it/2012/08/enrico-bernardi-e-la-storia.html

 

 

 

 

 

BERNARDI, ENRICO ZENO

 

 

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Enrico Bernardi, insieme alla moglie, prova la vettura a tre ruote sulle strade della Lessinia.

 

 

di Mario Medici

 

 

BERNARDI, Enrico Zeno. – Nacque a Verona il 20 maggio 1841 da Lauro, medico-fisico, e da Bianca Carlotti. Compì gli studi ginnasiali nella città natale; ancora studente, allestì due interessanti modelli: uno era relativo a una locomotiva a vapore con distribuzione dell’inversione del moto a un solo eccentrico, l’altro era inerente a una macchina alternativa a vapore per impianti fissi; per essi ottenne una menzione onorevole nella sezione della meccanica all’Esposizione provinciale veronese d’agricoltura, industria e belle arti (1856-1857)

 

Compiuti gli studi universitari a Padova, il Bernardi nel 1863 si laureò in matematica. Nel quadriennio seguente ricoprì successivamente, e anche contemporaneamente, gli incarichi di assistente agli insegnamenti di geodesia, idrometria, meccanica razionale e fisica sperimentale. Fu poi professore di fisica e di meccanica e preside nell’istituto tecnico di Vicenza, ove nel 1870 compì un interessante studio sull’eclisse solare, i cui risultati vennero compendìati nell’opera Importanza di un’eclisse totale di sole (Vicenza 1870). Socio corrispondente dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, ne divenne membro effettivo nel 1878.

 

Nel 1874 il Bernardi dette inizio agli studi e alle ricerche sui motori a gas illuminante, costruendo un motorino della potenza di appena 1/50 di KW, che consumava proporzionalmente circa il 20% in meno dei contemporanei motori germanici, di potenza 8o volte maggiore, costruiti da Langen-Otto.

 

Nel biennio 1875-76 diresse a Vicenza la fonderia e tomeria Mori. Nel 1878 costruì un secondo motorino a gas illuminante, con stelo dello stantuffo agente direttamente sulla manovella e non tramite dentiera e rocchetto, come negli altri motori del tempo. Pubblicò in questi stessi anni i risultati dei suoi studi negli Atti dell’Istituto veneto di scienze lettere ed arti (Studi sopra i motori atmosferici a gas,s. 5, IV [1877-78], pp. 1123-89).

 

 

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Nel 1879 il Bernardi vinse la cattedra di macchine idrauliche termiche ed agricole presso l’università di Padova. Ottenne nel 1882 un attestato di privativa industriale per tre anni per il ritrovato “motore a scoppio, a gas, per le piccole industrie “. Il brevetto relativo (n. 14.46o) fu il primo per un motore a combustione interna operante secondo un ciclo atmosferico e ad azione diretta. Nel 1884 egli realizzò e provò il suo primo motore alleggerito a benzina per l’autolocomozione.

 

Nel trentennio del suo insegnamento all’università di Padova il Bernardi elaborò i più importanti lavori scientifici e ideò i ritrovati più geniali nel campo della meccanica della locomozione con motori a benzina. Al motorino iniziale diede il nome della figliola Pia e lo presentò nella sezione della meccanica (la XVIIa) all’Esposizione nazionale di Torino del 1884, ove venne premiato con medaglia d’argento. I suoi studi e le sue ricerche si concentrarono, nel quadriennio 1885-89, sull’ideazione e costruzione di un motore a benzina per l’autolocomozione, che venne brevettato nel 1889 con rivendicazioni di varie caratteristiche tecniche originali: il cilindro-motore a camera di compressione diretta, con valvola di distribuzione in testa azionata mediante un bocciolo su albero secondario e leva a bilancere; un regolatore di velocità ad asse orizzontale con molla antagonista a tensione variabile a volontà; un carburatore di benzina a livello costante, mantenuto tale grazie a un galleggiante operante sulla valvola di presa dei carburante, corredata di un dispositivo di regolazione a mano, che ha precorso i modemi carburatori a getto polverizzato di benzina; il carburatore era posto nella testata e formava gruppo con la valvola d’aspirazione, mentre la vaschetta del carburante era separata. Lo spruzzatore della benzina, ideato dal Bernardi, è veramente interessante dal lato teorico: esso era a luce anulare, regolabile mediante la variazione della posizione di un ago conico d’acciaio.

 

Nel campo dell’autotrazione, inoltre, il Bernardi propose e realizzò uno sterzo corretto a cinque aste articolate, caratterizzato da una soluzione matematicamente esatta del problema della sterzatura in curva: un cambio di velocità a tre marce e retromarcia; una trasmissione a catena con baricentro dislocato in posizione tale da assicurare una grande stabilità all’autovettura; l’adozione di cuscinetti a sfera sugli alberi del cambio, della trasmissione e degli assali e di un innesto a frizione con cono d’attrito, determinante l’avvolgimento a spirale di una fune metallica.

 

Tra i vari sistemi brevettati citiamo: brevetto 30.928 del 21 giugno 1895 “Carrello motore per veicoli su strade ordinarie e trasmissione pneumatica per comandare il movimento “;

brevetto 43.230 del 9 giugno 1897 “Nuovo motore a scoppio di gas specialmente applicabile per dare movimento ad un veicolo”;

brevetto 46.601 del 22 febbr. 1898 “Collegamento cinematico Bernardi per lo sterzo delle ruote direttrici di automobili e velocipedi”;

brevetto 47.857 del 30 giugno 1898 “Sistema Bernardi per ottenere la circolazione dell’acqua fredda intorno ai cilindri dei motori a scoppio e delle macchine pneumofore “.

 

Sul problema dello sterzo corretto dei veicoli il Bernardi  tornò successivamente pubblicando i risultati dei suoi studi negli Atti dell’Istituto veneto (Sistema pratico di semplici aste articolate che risolve il problema dello sterzo corretto per automobili, LXIII, 2 [1903-04], pp. 915 bis-959;

Soluzione del problema generale dello sterzo corretto con sole aste articolate per un sistema rotolante comunque complesso, LXIV, 2 [1904-05], pp. 1331-1345).

 

Dalla minuscola motocicletta azionata con motore da 1/3 di CV, avente alesaggio 65,5 e corsa 80,2 mm, e ruotante a 500 giri al minuto, realizzata per il figlio Lauro cinquenne nel 1884, al motoscooter a tre ruote in fila del 1892 e alla vettura automobile a tre ruote, che cominciò a circolare nel 1894, fu un continuo susseguirsi di geniali concezioni innovatrici per la tecnica motoristica.

 

Nel 1894 si costituiva a Padova la società Miari e Giusti, trasformata poi in accomandita Miari e Giusti per la fabbricazione industriale di motori e di vetture automobili Bernardi e, il 5 maggio 1899, in Società Italiana Bernardi.

 

Il conferimento del premio di L. 3000, aggiudicato a un’autovettura Miari e Giusti, con motore Bernardi, nella corsa automobilistica Torino-Asti-Alessandria disputata il 17 luglio 1898, per avere percorso il tragitto di 192 km nel minor tempo (9 ore e 47 nunuti) e con un consumo di solo 5,5 Kp di petrolina italiana, fu per il Bernardi, un meritato riconoscimento della sua grande opera di pioniere dell’automobilismo italiano.

Il motore sviluppava 2 CV, aveva un alesaggio di 85 min, corsa di 109 mm, cilindrata 62 dmc, ruotava a 820 giri al minuto, il rapporto di compressione era di 3,85, il rendimento risultò del 15,5 %.

 

Una autovettura Bernardi percorse alla fine del secolo scorso ben 6o.ooo km senza dover subire radicali riparazioni, nonostante lo stato delle strade in quell’epoca.

 

La Società Italiana Bernardi non ebbe, tuttavia, successo commerciale e finì pertanto per esser posta in liquidazione nel giugno dell’anno 1901.

 

Durante l’ultimo decennio di permanenza a Padova, e specialmente a partire dall’anno 1910, il Bernardi si dedicò con passione anche ai problemi della fotografia a colori, riuscendo ad ottenere delle eccellenti cromonegative, nonché a studi ed sperimentazioni d’aerodinamica; compì anche una serie di ricerche sull’utilizzazione dell’energia solare.

 

Trasferitosi a Torino, dopo il suo collocamento a riposo, il Bernardi  vi si spegneva il 21 febbraio 1919.

 

 

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Busto di Enrico Bernardi,   presso sede ACI di Verona

 

 

A Padova, nell’Istituto di macchine dell’università, da lui fondato, un piccolo Museo Bernardi ne custodisce i cimeli, le pubblicazioni e gli scritti originali; altri cimeli sono conservati ed esposti nelle sale del Museo dell’automobile a Torino e del Museo della scienza e della tecnica Leonardo da Vinci di Milano.

 

 

Bibliografia

 

  1. Bernardi, La vetturetta ed i motocicli Bernardi nella storia dell’automobilismo, in Atti del I. Congresso del motore a scoppio, Padova 1929, pp. 454-460;

 

  1. Capetti, E. B. (discorso pronunciato nell’aula magna dell’università di Padova), ibid., pp. 1-7;
  2. Levi Cases, Precursori ital. nella storia del motore a combustione interna, ibid., pp.9-42;

 

Ente Fiera di Verona, L. M., E. B. pioniere del motore a scoppio, in Civico Museo di storia naturale di Verona, III(1937), pp. 1-10;

 

  1. Medici, Gli albori dell’automobilismo e l’opera geniale di uno scienziato italiano: E. B.,in Auto-Moto-Avio, maggio 1941, pp. 15-37;

 

Id., Centen. della locomoz. meccanica, in L’illustr. ital.,31 maggio 1942, pp. 528-529; Id., Passato, presente e futuro dell’automobilismo, in Automobilismo ed automob. industr.,n. 5, settembre-ottobre 1961, pp. 669-682;

 

Automobile Club di Verona, E. B. pioniere dell’automobilismo, in Via Libera, numero speciale per le celebrazioni dell’automobilismo italiano, giugno 1963, pp. 12-27;

 

  1. Canestrini, Priorità ital. in campo automobilistico (relazione tenuta il 28 luglio 1963 alle Celebr. dell’automobilismo ital. in Verona;

 

Atti delle celebr. in corso di stampa);

 

  1. Medici, Carburazione ed iniezione nei motori automobilistici, ibid.;

 

Id., L’opera di due grandi Pionieri dell’automobilismo: E. B. e Giovanni Agnelli, in ATA, 1963, n. 100 pp. 516-525.

 

 

Fonte: srs di Mario Medici, da Treccani.it

Link: http://www.treccani.it/enciclopedia/enrico-zeno-bernardi_(Dizionario-Biografico)/

 

 

I GENOCIDI VANNO RICORDATI TUTTI.

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genocidio del sud italia

 

 

 

C’è chi ignora tutto cio’ e festeggia il 150° anniversario dell’unità d’italia.. I NOSTRI MORTI MERITANO RISPETTO!

 

Questa è la storia di Fenestrelle(primo lager europeo), questa è una storia che i nostri colonizzatori hanno voluto cancellare, dimenticare… ma NOI NON DIMENTICHIAMO:

 

5212 condanne a morte, 6564 arresti, 54 paesi rasi al suolo, 1 milione di morti.

 

Queste le cifre della repressione consumata all’indomani dell’Unità d’Italia dai Savoia.

La prima pulizia etnica della modernità occidentale operata sulle popolazioni meridionali dettata dalla Legge Pica, promulgata dal governo Minghetti del 15 agosto 1863 “… per la repressione del brigantaggio nel Meridione”[1].

 

Questa legge istituiva, sotto l’egida savoiarda, tribunali di guerra per il Sud ed i soldati ebbero carta bianca, le fucilazioni, anche di vecchi, donne e bambini, divennero cosa ordinaria e non straordinaria. Un genocidio la cui portata è mitigata solo dalla fuga e dall’emigrazione forzata, nell’inesorabile comandamento di destino: “O briganti, o emigranti“.

 

Lemkin, che ha definito il primo concetto di genocidio, sosteneva:

“… genocidio non significa necessariamente la distruzione immediata di una nazione…esso intende designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali. Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e della vita economica dei gruppi nazionali e la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e persino delle vite degli individui…non a causa delle loro qualità individuali, ma in quanto membri del gruppo nazionale“.

 

Deportazioni, l’incubo della reclusione, persecuzione della Chiesa cattolica, profanazioni dei templi, fucilazioni di massa, stupri, perfino bambine (figlie di “briganti”) costretti ai ferri carcerari.

 

Una pagina non ancora scritta è quella relativa alle carceri in cui furono rinchiusi i soldati “vinti”.

 

Il governo piemontese dovette affrontare il problema dei prigionieri, 1700 ufficiali dell’esercito borbonico (su un giornale satirico dell’epoca era rappresentata la caricatura dell’esercito borbonico: il soldato con la testa di leone, l’ufficiale con la testa d’asino, il generale senza testa) e 24.000 soldati, senza contare quelli che ancora resistevano nelle fortezze di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto.

 

 

esercito borbonico

 

 

Ma il problema fu risolto con la boria del vincitore, non con la pietas che sarebbe stata più utile, forse necessaria.

Un primo tentativo di risolvere il problema ci fu con il decreto del 20 dicembre 1860, anche se le prime deportazioni dei soldati duosiciliani incominciarono già verso ottobre del 1860, in quanto la resistenza duosiciliana era iniziata con episodi isolati e non coordinati nell’agosto del 1860, dopo lo sbarco dei garibaldini e dalla stampa fu presentata come espressione di criminalità comune.

Il decreto chiamava alle armi gli uomini che sarebbero stati di leva negli anni dal 1857 al 1860 nell’esercito delle Due Sicilie, ma si rivelò un fallimento. Si presentarono solo 20.000 uomini sui previsti 72.000; gli altri si diedero alla macchia e furono chiamati “briganti”.

(nel ’43, dopo l’8 settembre, accadde quasi la stessa cosa, ma dato che vinsero (gli anglo-americani) la lotta la chiamarono di “resistenza” , e gli uomini “partigiani“. Ndr.)

 

A migliaia questi uomini furono concentrati dei depositi di Napoli o nelle carceri, poi trasferiti con il decreto del 20 gennaio 1861, che istituì “Depositi d’uffiziali d’ogni arma dello sciolto esercito delle Due Sicilie”.

 

La Marmora ordinò ai procuratori di “non porre in libertà nessuno dei detenuti senza l’assenso dell’esercito“.

 

Per la maggior parte furono stipati nelle navi peggio degli animali (anche se molti percorsero a piedi l’intero tragitto) e fatti sbarcare a Genova, da dove, attraversando laceri ed affamati la via Assarotti, venivano smistati in vari campi di concentramento istituiti a Fenestrelle, S. Maurizio Canavese, Alessandria, nel forte di S. Benigno in Genova, Milano, Bergamo, Forte di Priamar presso Savona, Parma, Modena, Bologna, Ascoli Piceno ed altre località del Nord.

 

Presso il Forte di Priamar fu relegato l’aiutante maggiore Giuseppe Santomartino, che difendeva la fortezza di Civitella del Tronto. Alla caduta del baluardo abruzzese, Santomartino fu processato dai (vincitori) Piemontesi e condannato a morte. In seguito alle pressioni dei francesi la condanna fu commutata in 24 anni di carcere da scontare nel forte presso Savona. Poco dopo il suo arrivo, una notte, fu trovato morto, lasciando moglie e cinque figli. Si disse che aveva tentato di fuggire. Un esempio di morte sospetta su cui non fu mai aperta un’inchiesta per accertare le vere cause del decesso.

 

In quei luoghi, veri e propri lager, ma istituiti per un trattamento di “correzione ed idoneità al servizio”, i prigionieri, appena coperti da cenci di tela, potevano mangiare una sozza brodaglia con un po’ di pane nero raffermo, subendo dei trattamenti veramente bestiali, ogni tipo di nefandezze fisiche e morali.

Per oltre dieci anni, tutti quelli che venivano catturati, oltre 40.000, furono fatti deliberatamente morire a migliaia per fame, stenti, maltrattamenti e malattie.

 

Quelli deportati a Fenestrelle [2], fortezza situata a quasi duemila metri di altezza, sulle montagne piemontesi, sulla sinistra del Chisone, ufficiali, sottufficiali e soldati (tutti quei militari borbonici che non vollero finire il servizio militare obbligatorio nell’esercito sabaudo, tutti quelli che si dichiararono apertamente fedeli al Re Francesco II, quelli che giurarono aperta resistenza ai piemontesi) subirono il trattamento più feroce.

 

Fenestrelle (nella foto di apertura) più che un forte, era un insieme di forti, protetti da altissimi bastioni ed uniti da una scala, scavata nella roccia, di 4000 gradini. Era una ciclopica cortina bastionata cui la naturale asperità dei luoghi ed il rigore del clima conferivano un aspetto sinistro. Faceva tanto spavento come la relegazione in Siberia. I detenuti tentarono anche di organizzare una rivolta il 22 agosto del 1861 per impadronirsi della fortezza, ma fu scoperta in tempo ed il tentativo ebbe come risultato l’inasprimento delle pene con i più costretti con palle al piede da 16 chili, ceppi e catene.

 

Erano stretti insieme assassini, sacerdoti, giovanetti, vecchi, miseri popolani e uomini di cultura. Senza pagliericci, senza coperte, senza luce. Un carcerato venne ucciso da una sentinella solo perché aveva proferito ingiurie contro i Savoia. Vennero smontati i vetri e gli infissi per rieducare con il freddo i segregati. Laceri e poco nutriti era usuale vederli appoggiati a ridosso dei muraglioni, nel tentativo disperato di catturare i timidi raggi solari invernali, ricordando forse con nostalgia il caldo di altri climi mediterranei.

 

Spesso le persone imprigionate non sapevano nemmeno di cosa fossero accusati ed erano loro sequestrati tutti i beni. Spesso la ragione per cui erano stati catturati era proprio solo per rubare loro il danaro che possedevano. Molti non erano nemmeno registrati, sicché solo dopo molti anni venivano processati e condannati senza alcuna spiegazione logica.

 

Pochissimi riuscirono a sopravvivere: la vita in quelle condizioni, anche per le gelide temperature che dovevano sopportare senza alcun riparo, non superava i tre mesi. E proprio a Fenestrelle furono vilmente imprigionati la maggior parte di quei valorosi soldati che, in esecuzione degli accordi intervenuti dopo la resa di Gaeta, dovevano invece essere lasciati liberi alla fine delle ostilità.

 

Dopo sei mesi di eroica resistenza dovettero subire un trattamento infame che incominciò subito dopo essere stati disarmati, venendo derubati di tutto e vigliaccamente insultati dalle truppe piemontesi.

 

La liberazione avveniva solo con la morte ed i corpi (non erano ancora in uso i forni crematori) venivano disciolti nella calce viva collocata in una grande vasca situata nel retro della chiesa che sorgeva all’ingresso del Forte. Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché non restassero tracce dei misfatti compiuti. Ancora oggi, entrando a Fenestrelle, su un muro è ancora visibile l’iscrizione:

Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce“.

(ricorda molto la scritta dei lager nazisti )

 

Non era più gradevole il campo impiantato nelle “lande di San Martino” presso Torino per la “rieducazione” dei militari sbandati, rieducazione che procedeva con metodi di inaudita crudeltà. Così, in questi luoghi terribili, i fratelli “liberati”, maceri, cenciosi, affamati, affaticati, venivano rieducati e tormentati dai fratelli “liberatori”.

 

Altre migliaia di “liberati” venivano confinati nelle isole, a Gorgonia, Capraia, Giglio, all’Elba, Ponza, in Sardegna, nella Maremma malarica. Tutte le atrocità che si susseguirono per anni sono documentate negli Atti Parlamentari, nelle relazioni delle Commissioni d’Inchiesta sul Brigantaggio, nei vari carteggi parlamentari dell’epoca e negli Archivi di Stato dei capoluoghi dove si svolsero i fatti.

 

Francesco Proto Carafa, duca di Maddaloni, sosteneva in Parlamento:

Ma che dico di un governo che strappa dal seno delle famiglie tanti vecchi generali, tanti onorati ufficiali solo per il sospetto che nutrissero amore per il loro Re sventurato, e rilegagli a vivere nelle fortezze di Alessandria ed in altre inospitali terre del Piemonte…Sono essi trattati peggio che i galeotti. Perché il governo piemontese abbia a spiegar loro tanto lusso di crudeltà? Perché abbia a torturare con la fame e con l’inerzia e la prigione uomini nati in Italia come noi?”.

 

Ma della mozione presentata non fu autorizzata la pubblicazione negli Atti Parlamentari, vietandosene la discussione in aula [3].

 

Il generale Enrico Della Rocca, che condusse l’assedio di Gaeta, nella sua autobiografia riporta una lettera alla moglie, in cui dice: “Partiranno, soldati ed ufficiali, per Napoli e Torino…”, precisando, a proposito della resa di Capua, “…le truppe furono avviate a piedi a Napoli per essere trasportate in uno dei porti di S.M. il Re di Sardegna. Erano 11.500 uomini” [4].

 

Alfredo Comandini, deputato mazziniano dell’età giolittiana, che compilò “L’Italia nei Cento Anni (1801-1900) del secolo XIX giorno per giorno illustrata“, riporta un’incisione del 1861, ripresa da “Mondo Illustrato” di quell’anno, raffigurante dei soldati borbonici detenuti nel campo di concentramento di S. Maurizio, una località sita a 25 chilometri da Torino. Egli annota che, nel settembre del 1861, quando il campo fu visitato dai ministri Bastogi e Ricasoli, erano detenuti 3.000 soldati delle Due Sicilie e nel mese successivo erano arrivati a 12.447 uomini.

 

Il 18 ottobre 1861 alcuni prigionieri militari e civili capitolati a Gaeta e prigionieri a Ponza scrissero a Biagio Cognetti, direttore di “Stampa Meridionale”, per denunciare lo stato di detenzione in cui versavano, in palese violazione della Capitolazione, che prevedeva il ritorno alle famiglie dei prigionieri dopo 15 giorni dalla caduta di Messina e Civitella del Tronto ed erano già trascorsi 8 mesi.

 

Il 19 novembre 1860 il generale Manfredo Fanti inviava un dispaccio al Conte di Cavour chiedendo di noleggiare all’estero dei vapori per trasportare a Genova 40.000 prigionieri di guerra. Cavour così scriveva al luogotenente Farini due giorni dopo:

Ho pregato La Marmora di visitare lui stesso i prigionieri napoletani che sono a Milano” (Fonte: lettera di Cavour a Farini, luogotenente a Napoli, datata 21 novembre 1860, n. 2551 vol. III:) ammettendo, in tal modo, l’esistenza di un altro campo di prigionia situato nel capoluogo lombardo per ospitare soldati napoletani.

 

Questa la risposta del La Marmora: “…non ti devo lasciar ignorare che i prigionieri napoletani dimostrano un pessimo spirito. Su 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsentono a prendere servizio. Sono tutti coperti di rogna e di verminia…e quel che è più dimostrano avversione a prendere da noi servizio. Jeri a taluni che con arroganza pretendevano aver il diritto di andare a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco Secondo, gli rinfacciai altamente che per il loro Re erano scappati, e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavano a servire, che erano un branco di car…che avessimo trovato modo di metterli alla ragione“.

 

Le atrocità commesse dai Piemontesi si volsero anche contro i magistrati, i dipendenti pubblici e le classi colte, che resistettero passivamente con l’astensione ai suffragi elettorali e la diffusione ad ogni livello della stampa legittimista clandestina contro l’occupazione savoiarda.

 

Particolarmente eloquente è anche un brano tratto da Civiltà Cattolica:

Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad un espediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane ed acqua ed una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e d’altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimare di fame e di stento per le ghiacciaie“.

 

Ancora possiamo leggere dal diario del soldato borbonico Giuseppe Conforti, nato a Catanzaro il 14.3.1836 (abbreviato per amor di sintesi):

Nella mia uscita fu principio la guerra del 1860, dopo questa campagna che per aver tradimenti si sono perduto tutto e noi altri povere soldati manggiando erba dovettimo fuggire, aggiunti alla provincia della Basilicata sortí un prete nemico di Dio e del mondo con una porzione di quei giudei e ci voleva condicendo che meritavamo di essere uccisi per la federtà che avevamo portato allo notro patrone. Ci hanno portato innanzi a un carnefice Piemontesa condicendo perché aveva tardato tanto ad abbandonare quell’assassino di Borbone. Io li sono risposto che non poteva giammai abbandonarlo perché aveva giurato fedeltà a lui e lui mi à ditto che dovevo tornare indietro asservire sotto la Bandiera d’ Italia. Il terzo giorno sono scappato, giunto a Girifarchio dove teneva mio fratello sacerdote vedendomi redutto a quello misero stato e dicendo mal del mio Re io li risposi che il mio Re no aveva colpa del nostri patimenti che sono stato le nostri soperiori traditori; siamo fatto questioni e lo sono lasciato“.

Allo mio paese sono stato arrestato e dopo 7 mesi di scurre priggione mi anno fatto partire per il Piemonte. Il 15 gennaio del 1862 ci anno portato affare il giuramento, in quello stesso anno sono stato 3 volte all’ospidale e in pregiona a pane e accua. Principio del 1863 fuggito da sotto le armi di vittorio, il 24 sono giunto in Roma, il giorno 30 sono andato alludienza del mio desiderato e amato dal Re’, Francesco 2 e li ò raccontato tutti i miei ragioni“[5].

 

Vittorio Emanuele II, il re vittorioso…

…e Francesco II, il re vinto, nella fortezza di Gaeta

 

Un ulteriore passo avanti nella studio di questa fase poco “chiara” del post unificazione è stato fatto recentemente, quando un ricercatore trovò dei documenti presso l’Archivio Storico del Ministero degli Esteri attestanti che, nel 1869, il governo italiano voleva acquistare un’isola dall’Argentina per relegarvi i soldati napoletani prigionieri, quindi dovevano essere ancora tanti [6].

 

Questi uomini del Sud finirono i loro giorni in terra straniera ed ostile, certamente con il commosso ricordo e la struggente nostalgia della Patria lontana. Molti di loro erano poco più che ragazzi [7].

Era la politica della criminalizzazione del dissenso, il rifiuto di ammettere l’esistenza di valori diversi dai propri, il rifiuto di negare ai “liberati” di credere ancora nei valori in cui avevano creduto. I combattenti delle Due Sicilie, i soldati dell’ex esercito borbonico ed i tanti civili detenuti nei “lager dei Savoia”, uomini in gran parte anonimi per la pallida memoria che ne è giunta fino a noi, vissero un eroismo fatto di gesti concreti, ed in molti casi ordinari, a cui non è estraneo chiunque sia capace di adempiere fedelmente il proprio compito fino in fondo, sapendo opporsi ai tentativi sovvertitori, con la libertà interiore di chi non si lascia asservire dallo “spirito del tempo”.

[STEFANIA MAFFEO]

 

——————

 

 

I LAGER DEI SAVOIA

 

forte di Fenestrelle

La fortezza di Fenestrelle

 

 

Fulvio Izzo, insegnante e ricercatore, ha firmato “I lager dei Savoia” dove, dopo aver messo insieme una documentazione imponente, descrive «la storia “infame” del Risorgimento – i campi di concentramento per i soldati Borbonici» ( tutti quei militari che non vollero finire il servizio militare obbligatorio nell’esercito sabaudo e quelli che si dichiararono apertamente fedeli al Re Francesco II), nei forti del Nord.

 

Il fatto che nella storiografia ufficiale si parli poco o troppo, del brigantaggio, per parte presa e non si sia mai accennato alle deportazioni e alle sofferenze dei prigionieri meridionali, dei quali molti deceduti nei campi di Finestrelle e San Maurizio in Piemonte, non è comprensibile e soprattutto non è giustificabile.

 

Il forte di Fenestrelle, iniziato nel 1727 e terminato completamente nel 1854 si sviluppa per oltre 3 km. di lunghezza su 650 mt. di dislivello. 1.300.000 metri quadri di superficie con 1.700 uomini di presidio. Una scalinata coperta di oltre 4.000 gradini collega la piazza principale del forte San Carlo con il forte delle Valli attraverso fortini ridotte e batterie. In quasi tre secoli di vita, questa maestosa macchina da guerra non ha mai sparato un solo colpo.

 

I detenuti meridionali tentarono anche di organizzare una rivolta, il 22 agosto del 1861, per impadronirsi della fortezza, ma fu scoperta ed il tentativo ebbe come risultato l’inasprimento delle pene.

 

Fulvio Izzo, I lager dei Savoia, 1999, 8°, Ed. Controcorrente

“… Si arrestano da Cialdini soldati napoletani in grande quantità, si stipano ne’ bastimenti peggio che non si farebbe degli animali, e poi si mandano in Genova. Trovandomi testé in quella città ho dovuto assistere ad uno di que’ spettacoli che lacerano l’anima. Ho visto giungere bastimenti carichi di quegli infelici, laceri, affamati, piangenti; e sbarcati vennero distesi sulla pubblica strada come cosa da mercato. Alcune centinaia ne furono mandati e chiusi nelle carceri di Fenestrelle: un ottomila di questi antichi soldati Napoletani vennero concentrati nel campo di S. Maurizio“.

 

. .. Recenti ricerche sottolineano le pessime condizioni in cui nel 1861 furono «ospitati» a Fenestrelle i soldati di Francesco II: laceri e poco nutriti era usuale vederli appoggiati a ridosso dei muraglioni, nel tentativo disperato di catturare i timidi raggi solari invernali, ricordando forse con nostalgia il caldo di altri climi mediterranei.

La fortezza di Fenestrelle non ebbe altri reclusi se non militari: ufficiali condannati agli arresti di fortezza e particolari reparti di disciplina, il più noto dei quali è l’VIII, al quale furono aggregati i commilitoni del caporale Pietro Barsanti, l’organizzatore della fallita rivolta militare di Pavia, nel marzo del 1870. Uno di questi fu Augusto Franzoi che cadde dalle mura nel tentativo di evadere in una notte del novembre 1870. Il ferito fu abbandonato dai compagni e tosto nuovamente imprigionato.

Durante la grande guerra vennero concentrati a Fenestrelle anche prigionieri austroungarici e italiani condannati dal tribunale di guerra. Tra questi, nel 1916, anche il generale Giulio Douhet ex bersagliere: reo di essersi contrapposto alle strategie ante Caporetto di Cadorna. [F.IZZO]

 

 

 

 

Fonte:

QUEI SOLDATI BORBONICI CHE SI FECERO VALERE A GETTYSBURG

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UNITA-LIBERTA-ONETO-GILBERTO

Gilberto Oneto, Unità o Libertà

 

 

Del migliaio di italiani che combatterono nelle file del Nord durante la guerra civile americana, quattro erano generali, nove colonnelli, tredici ufficiali di marina e ventotto maggiori e capitani. Ma erano tutti già residenti negli Usa. Malgrado gli appelli e i roboanti proclami antischiavisti che percorrevano in quegli anni la Penisola, nonché le tirate altrettanto altisonanti di Garibaldi, quasi nessuno si imbarcò per la gloriosa impresa. Garibaldi stesso rinunciò perché Lincoln gli aveva offerto solo un comando nelle truppe unioniste, mentre l’Eroe voleva quello supremo.

 

Nel 1861 quattro deputati americani vennero a Torino per arruolare una legione di volontari contro gli schiavisti. Il giornale La Nazione di Firenze pubblicò un appello in proposito agli ex garibaldini. Pochissimi si presentarono e quasi nessuno venne accettato quando si scoprì che i «volontari» cercavano più che altro un passaggio gratuito per emigrare in America. Per giunta, tutti volevano posti di comando. Nell’ottobre, i volontari si erano ridotti a due. E anche questi rinunciarono quando seppero che avrebbero dovuto pagarsi il viaggio.

 

Nel 1862 l’Unione era già a mal partito per i disastri militari inflitti dai confederati. Venne offerto un premio di otto acri di terra a guerra finita. «Sono poco più di tre ettari: non un grande gesto per un paese immenso», scrive Gilberto Oneto nel suo Unità o libertà. Italiani e padani nella guerra di secessione americana (Il Cerchio, pagg. 278, euro 28). Infatti, nessuno accetta la lauta offerta. Lincoln, disperato, si rivolge a Garibaldi, il quale incarica il colonnello garibaldino Gianni Battista Cattabeni di

 

reclutare duemila uomini che il Generale stesso comanderà. Cattabeni ne racimola solo cinquecento, segno «che l’ardore per la causa dell’Unione è ulteriormente scemato». In ogni caso, non se ne fa nulla quando Lincoln, con l’acqua finanziaria alla gola, scopre che deve loro pagare il viaggio. Morale: le Garibaldi Guards che combattono per l’Unione sono italiani colà già residenti o mazziniani europei.

 

Alla battaglia di Harper’s Ferry si arrendono ai confederati «assicurandosi il poco onorevole primato del maggior numero di soldati dello stesso reparto arresi in un colpo solo in tutta la guerra». Di 525 uomini, 400 finiscono prigionieri e gli altri disertano. Una corte marziale nordista li bolla di «vigliaccheria». Il reggimento, ricostituito, si comporta benino a Gettysburg.

 

Ma a riscattare l’onore militare degli italiani nella Guerra di Secessione sono in realtà quelli che combattono per il Sud. Questi sì, quasi tutti provenienti dalla Penisola. Sono quei soldati borbonici fatti prigionieri dopo il Volturno e che si rifiutano di giurare fedeltà al vincitore.

Sono tanti e Cavour non sa cosa farne. Lasciarli andare non può, perché andrebbero a ingrossare le file del «brigantaggio», arricchendo di veterani addestrati la resistenza che già si profila nel Meridione.

Deportarli in campi di concentramento esteri (sono presi in considerazione addirittura la Patagonia, l’Indonesia e l’Australia, già luogo di deportazione britannico) non si può perché i rispettivi governi non ne vogliono sapere.

A quel punto, l’ufficiale garibaldino Chatham R. Wheat offre la soluzione. È della Louisiana e deve tornare in patria a servire la Confederazione. La quale è a corto di uomini e, a differenza del Nord, paga viaggio, stipendio ed equipaggiamento. Garibaldi, pur filo-nordista, è d’accordo. Vittorio Emanuele II pure e Cavour tira un sospiro di sollievo. Chi gestisce l’operazione è il solito don Liborio Romano.

 

Così, qualche migliaio di ex borbonici viene imbarcato a più riprese per New Orleans, fino a quando un imbufalito Lincoln, dopo aver svaccato con Cavour, decreta il blocco navale della Confederazione. E i rimanenti borbonici finiscono nel lager piemontese di Fenestrelle. Gli italiani «confederati» vengono inquadrati nei Bourbon Dragoons e si coprono di gloria nelle maggiori battaglie della guerra.

Tra loro c’è anche Carlo Patti, fratello della celeberrima soprano Adelina. E uno dei fratelli di Nino Bixio, Giuseppe, gesuita e già difensore degli indiani contro le Giacche Blu.

 

 

Tratto da http://www.ilgiornale.it – di Rino Cammilleri

 

Fonte: visto su L’Indipendenza del 30 dicembre 2013

Link: http://www.lindipendenzanuova.com/quei-soldati-borbonici-che-si-fecero-valere-a-gettysburg/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=quei-soldati-borbonici-che-si-fecero-valere-a-gettysburg

 

 

LA STRAGE DI CASTELLAMMARE DEL GOLFO (TRAPANI)

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BRIGANTI UCCISI

 

 

di Antonio Ciano

 

Angela Romano e Giuseppe Magaddino

 

Il Giornale Officiale della Sicilia del 5 gennaio del 1862 riporta la notizia dei fatti di Castellammare del Golfo in provincia di Trapani in modo scarno:

«Sei dei colpevoli, presi con le armi alle mani e in atto di far fuoco contro le truppe, furono trucidati: tre di costoro non vollero palesare il loro nome, uno fu un triste prete imbrancatosi fra quella sanguinosa ribaldaglia».

 

L’organo ufficiale dello Stato aveva, sicuramente, occultato una verità atroce, orrenda.

Il primo di gennaio del 1862 era stata organizzata una ribellione contro la Monarchia sabauda. Repubblicani, borbonici, tartassati, anarchici, renitenti alla leva, uniti e armati, con bandiere rosse repubblicane, con simboli borbonici, contro i liberali del luogo. Vi fu mattanza. Morti da una parte e dall’altra, ma quei morti si volatilizzarono, nessuno seppe quanti furono, forse si involarono istantaneamente in paradiso. Una rivolta possente, forse 500-600 giovani armati contro i liberali del luogo, servi del potere centrale torinese.

 

Apprendiamo dal documentatissimo libro di Francesco Bianco ‘Castellammare del Golfo, 1° gennaio 1862’ che forse l’organizzatore della rivolta fosse Francesco Mistretta Domina, coadiuvato da Andrea De Blasi, entrambi borbonici. A loro si è unito Pasquale Turriciano, renitente alla leva, ritenuto Brigante dai piemontesi.

Il primo di gennaio del 1862, 500 uomini entrarono in Castellammare del Golfo, si sparsero per la città a caccia dei “Cutrara” , ossia del Galantuomini liberali che detenevano il potere. I rivoltosi, verso le 15.00 entrarono nella casa di Bartolomeo Asaro. Furono uccisi il proprietario della casa che aveva 49 anni, la di lui moglie Francesca Borruso di anni 26…

 

Francesco Borruso e il genero Girolamo Asaro -scrive Francesco Bianco- uscirono armati dalla casa ma vedendo che neanche le forze dell’ordine erano in grado di fronteggiare la sommossa, tentarono di rientrare in casa. La cosa riuscì ad Asaro benché ferito ad un braccio, ma non a Borruso, il quale si rifugiò nella casa terranea di Giuseppe Garofalo. Lì viene scovato ed ucciso a pugnalate e a colpi di arma da fuoco…

 

LIBER DEFUNCTORUM

 

Nel libro dei morti della Chiesa Madre di Castellammare del Golfo, a pagina 80, recto, vi sono gli atti di morte di:

 

Don Francesco Borruso,

Donna Francesca Borruso,

Don Antonio Galante,

del Capitano Antonio Varvaro,

di Montana Francesco ( morte naturale)

del Capitano Carlo Mazzetti,

e di Crociata Marianna.

 

A pagina 80,verso, vi sono gli atti di morte di:

 

Padre Benedetto Palermo, di anni 44, catturato dai bersaglieri del capitano Bosisio in contrada Fraginesi e fucilato ai “quattro canti” di Castellammare, dove resterà agonizzante per più di un’ora. Sarà finito da un bersagliere con un colpo di baionetta alla gola (Francesco Bianco, Castellammare del Golfo,1° gennaio 1862,Pubblicazione in proprio, 2010, pag.51).

Sicuramente i bersaglieri stavano massacrando atri rivoltosi, se si sono accorti che il prete borbonico era ancora agonizzante dopo un’ora, ma nessuno ce lo dirà.

 

Questo Stato difende ancora le azioni delle SS del 1800, di cui i bersaglieri, furono tra i maggiori artefici di eccidi e stragi inumane, disumane, barbariche. Vorremmo sapere quale tribunale ordinario o di guerra ha ordinato tale fucilazione.

Comunque, la morte di Padre Benedetto Palermo e quella degli altri nella pagina 80, verso, del libro dei morti della Chiesa Madre di Castellammare, è scritto chiaramente che, ad ucciderli, è stato il Regio esercito ( interfecta fuit a a militibus Regis Italie).

 

Antonino Corona, di anni 70,

Marco Randisi, di anni 45,

Angela Catalano, di anni 50

Angela Calamia, di anni 70,

Marianna Crociata, di anni 30

Angela Romano, di anni otto e due mesi.

 

Apprendiamo dal Liber Defuncotorum che quest’ultima fu uccisa a “ Villa Falconera” di Fraginesi.

 

Il Dr Francesco Bianco, storico di Castellammare del Golfo e il Dott. Baldo Sabella, funzionario del comune, mi hanno ricevuto e mi hanno dato la documentazione inerente i fatti del 1° gennaio del 1862, compreso le fotocopie del libro dei morti della chiesa madre e dell’atto di nascita di Angela Romano. A loro siamo grati e riconoscenti.

 

La trascrizione della morte della piccola Angela Romano, sul verso della pagina 80, in latino, recita

Romano Angela filia Petri et Joanna Pollina consortis. Etatis suae circ. Hodie hor.15 circ. in C. S.M.E Animam Deo redditi absque sacramentis in villa sic dicta Falconera quia interfecta fuit a militibus Regis Italie. Eius corpus sepultum est in campo Sancto novo”

 

Il suo nome non viene numerato, risulta inserita tra il numero 12 e il numero 13 della pagina 80, verso. Tra Angela Catalano e Angela Calamia. Anche loro vittime del Regio Esercito italiano.

 

Perché? Semplice. La trascrizione è postuma. I preti Galante e Carollo hanno voluto dare ai posteri una verità che delinquenti come il capitano Bosisio e il generale Quintini hanno cercato di occultare.

 

Secondo noi, a Castellammare del Golfo c’è stata una mattanza inaudita. Col tempo verremo a sapere di quanti morti si è macchiato il criminale generale Quintini.

 

A Scurcola Marsicana ne fece 150, a Bauco ne fucilò 50 in un botto.

 

Il generale dei bersaglieri, Pietro Quintini è da annoverare tra i più grandi criminali di guerra del risorgimento piemontese. Vogliamo solo sapere dove è sepolto.

 

I morti non vengono annotati nemmeno nei registri comunali. Per tredici giorni, dopo quelle del dicembre del 1861, riprendono il 14 di gennaio del 1862. Di sicuro c’è stato un ordine infame: non trascrivere i morti della rivolta. Solo quelli trascritti nel libro dei morti della Chiesa Madre dall’arciprete Girolamo Galante e da padre Michele Carollo.

 

Non doveva rimanere alcuna traccia del massacro. Né il governo, su richiesta dei deputati D’Ondes Reggio e di Francesco Crispi, seppe dare risposte esaustive. Giorni convulsi di rivolta, di eccidi.

 

Nel libro dei morti della Matrice di Castellammare del Golfo vi è annotato anche la morte di un altro ragazzo, certo Giuseppe Magaddino di 4 anni, poi depennato con inchiostro di diverso colore.

 

Nei registri parrocchiali non sono annotati nemmeno i nomi dei soldati uccisi durante i conflitti a fuoco del 2 e 3 gennaio, ad eccezione del comandante della cavalleria di Alcamo, Antonino Varvaro di anni 26 e del capitano dell’esercito Carlo Mazzetti di anni 38 (Liber Defunctorum del 1862, f.80r).

 

Il Dr.G. Calandra, a pag 76 della sua opera “l’avvocato e il parricida” indica altri militari morti: il brigadiere Mariano Bocchini comandante la stazione dei carabinieri locale e del milite a cavallo Giuseppe Lazzara (Salvatore Costanza, La Patria Armata, Corrao Editore,1989, pag.197).

Risultano morti anche 7 soldati ed undici feriti. Il che significa che la battaglia fu cruenta.

Non risultano, secondo le fonti di cui disponiamo, altri morti. Né tra i ribelli di Turriciano, né di altri militari.

 

Oltre ai bersaglieri del generale Quintini, per ristabilire l’ordine a Castellammare, giunsero da Alcamo altri 256 militi. Anche ad Alcamo c’era rivolta come a Castellammare.

Fu ucciso Ciro Montecchini, di anni 25, ufficiale di fanteria, nativo di Sant’Antonino di Susa. Furono feriti anche quattro carabinieri. Pare strano che non vi siano stati morti tra i rivoltosi.

 

Un eccidio senza fine, fucilati senza processo, nessun brigante morto, secondo le fonti ufficiali, ma solo un prete borbonico preso con le armi in mano, vecchi e bambini.

 

Qualche ufficiale piemontese depennò la morte di Giuseppe Magaddino, sicuramente fucilato, forse perché parente di qualche renitente alla leva. Angela Romano, fu registrata nel libro dei morti, solo in seguito.

 

Galante e Carollo, ci hanno voluto illuminare su quella strage e sulla repressione barbara del generale dei bersaglieri Pietro Quintini. Ma faremo altre ricerche negli archivi polverosi e nascosti, siano essi archivi della polizia, dell’esercito, o delle prefetture. Il Sud e il Nord vogliono sapere.

 

ANTONIO CIANO

 

Fonte: visto su BRIGANTI del 3 gennaio 2015

Link: http://briganti.info/la-strage-di-castellammare-del-golfo-tp/

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IL SACCHEGGIO DEL SUD

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I Borbone avevano conservato il loro regno integro; i piemontesi, che avevano invaso un Regno senza dichiarazione di guerra, trovarono oro e denaro, saccheggiarono tutto quello che c’era da saccheggiare, massacrarono intere popolazioni, misero a ferro e fuoco il Sud per dieci anni, lo impoverirono, trasferendo tutte le sue ricchezze nel Piemonte.

 

Francesco II, partendo da Gaeta il 14 febbraio 1861, disse al comandante Vincenzo Criscuolo: «Vincenzino, i napoletani non hanno voluto giudicarmi a ragion veduta; io però ho la coscienza di avere fatto sempre il mio dovere, Il Nord non lascerà ai meridionali neppure gli occhi per piangere”.

 

Mai parole furono così vere!

 

Dal 1860 al 1870 i piemontesi riuscirono a depredare tutto quello che c’era da prendere, svuotarono le casse dei comuni, quelle delle banche, quelle dei poveri contadini, quelle delle comunità religiose, dei conventi; saccheggiarono le chiese e le campagne; smontarono i macchinari delle fabbriche per montarli al nord; rubarono opere d’arte, quadri, statue.

 

Le miniere di ferro, il laboratorio metallurgico della Mongiana in Calabria; le industrie tessili della Ciociaria; le manifatture di Terra di Lavoro; i tanti cantieri navali sparsi per tutto il Mezzogiorno; la magnifica fabbrica di Pietrarsa che dava con l’indotto lavoro a settemila persone; le scuole pubbliche e, soprattutto, la dignità e la libertà furono tolte ai Meridionali i quali, coraggiosamente, preferirono andare a morire partigiani sui monti dell’ Appennino, piuttosto che veder calpestato il suolo della patria napoletana dalle orde di assassjnj e ladroni del nord”.

 

Erano così rapaci i fautori dell’Italia Unita che a Napoli furono trafugate anche le batterie della cucina dei palazzi reali. Presero la via di Torino anche due enormi mortai di bronzo cesellati, che stavano negli ospedali militari della Trinità e del Santo Sacramento, tali opere erano state create da Benvenuto Cellini.

 

Tutto il Sud fu razziato e spogliato delle sue fabbriche e delle sue ricchezze: a guerra civile terminata, nel 1871, le più oneste e migliori menti della classe imprenditoriale, quel poco che restava di media borghesia oltre a una miriade di contadini e di operai del Sud, che fino al 1860 non avevano mai conosciuto l’emigrazione, furono costretti ad arricchire gli stati del continente americano.

 

Fino al 1860, il Regno delle Due Sicilie, ricco di pace, di memorie, di costumi, di commercio, di prosperità, di arti, di industrie, di pesca, di agricoltura, di artigianato, era l’invidia delle genti: scuole gratis, teatri, opere d’ingegneria, meravigliosi musei, strade ferrate, gas, opifici, opere di carità, bacini, cantieri navali, arsenali davano lavoro a tutto il popolo.

 

Non c’era disoccupazione, era il primo stato Sociale, il primo stato Illuminato del mondo.

 

Dal 1860 al 1871 il Meridione divenne un inferno.

 

Secondo i dati del primo censimento dell’Italia unita (1861) risulta che su 668 milioni di lire incamerati nelle casse piemontesi, ben 443 appartenevano al Regno delle Due Sicilie

 

NORD LADRO

 

Quando si parla d’industria, l’immaginario collettivo pensa al Nord, pensa al triangolo industriale Milano, Genova, Torino, come se il Padreterno avesse eletto i padani a condurre l’economia, come se i meridionali fossero incapaci di produrre beni, ma solo in grado di consumare ricchezza.

 

Leggendo le statistiche del primo censimento dell’unità d’Italia, ci accorgiamo che gli addetti nell’industria.

 

Questi sono dati forniti dal governo piemontese nel 1861 e quindi inconfutabili. 1.595.359 addetti nell’industria del Regno Borbonico contro 1.170.859 addetti del resto d’Italia.

 

La Campania nel 1860 era tra le regione più industrializzata del mondo ed oggi, dopo 150 anni di potere liberal massonico, è definita terra di camorra.

 

Oggi è sotto gli occhi di tutti la voragine debitoria di questo Stato!

 

Nel 1860 scannarono il Sud e il Sud ha pagato un prezzo enorme alla causa unitaria: quasi un milione di morti, tra fucilati, incarcerati, impazziti, un decimo della popolazione, 20 milioni di emigranti; la spoliazione delle terre demaniali e dei beni ecclesiastici, tutti i risparmi dei Meridionali rapinati.

 

I pennivendoli di regime continuano a scrivere libri di storia menzogneri sull’Unità d’Italia, danno al Sud colpe tremende di parassitismo; continuano a chiamare “borbonica” la cattiva amministrazione e la burocrazia di stampo piemontese e, soprattutto, sono riusciti ad inculcare nell’immaginario collettivo, senza spiegarne le cause, bombardando continuamente le menti ormai fiaccate della gente, che Sud vuol dire mafia, vuol dire camorra, vuol dire ‘ndrangheta, vuol dire far niente, vuol dire assistito.

 

Ecco, questi pennivendoli sperano di mettere un velo sull’intelligenza umana, di far dimenticare a qualcuno le miserie del Nord, gli eccidi perpetrati dagli invasori piemontesi, le prepotenze dei liberalmassoni di ieri e di oggi e soprattutto vorrebbero farci dimenticare che il Sud era ricco.

 

autore Antonio Ciano

 

 

Fonte: srs di Antonio Ciano; visto su BRIGANTI.it del 5 febbraio 2015

Link: http://briganti.info/il-saccheggio-del-sud/

 

NEL 1924 IN VASTE ZONE DELL’EX REGNO DUOSICILIANO LA LINGUA PARLATA ERA ANCORA IL NAPOLETANO

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Gerhard Rohlfs

 

 

Ecco cosa scriveva il linguista, Gerhard Rohlfs, sulla lingua parlata da Napoli a Taranto durante un suo viaggio del 1924:

 

“ …Il viaggiatore che, in uno scompartimento di III classe nel tragitto da Napoli a Taranto, presti attenzione alla conversazione dei contadini che salgono ad ogni stazione, si renderà subito conto che nel primo tratto – se si trascurano variazioni nell’intonazione e differenze locali minime – la base linguistica è sorprendentemente unitaria. Ma subito dopo la profonda valle del Platano, dalla stazione di Picerno in poi il quadro cambia. Improvvisamente arrivano all’orecchio del viaggiatore forme foniche che non si adattano assolutamente alla situazione osservata fino a quel momento… E così si continua anche dopo che il treno ha superato le stazioni di Tito e Potenza. Soltanto a partire da Trivigno queste caratteristiche scompaiono e, mentre il treno tra le brulle e selvagge montagne della valle del Basento si dirige verso il golfo di Taranto, ricompare improvvisamente la situazione linguistica che, appena due ore prima, era scomparsa così improvvisamente e in modo così inspiegabile…”

 

Quindi ancora agli inizi del ‘900 c’era una sostanziale unità linguistica nell’ex regno Duosiciliano, dove l’unità linguistica viene ad interrompersi è perchè da Tito fino a Vaglio di Lucania, circa 30 km,  si parla il dialetto gallo-italico che deriva da immigrazioni del ‘500 dal Piemonte e precisamente dal Monferrato! Altra prova che le Due Sicilie accoglievano immigrati da tante zone che conferma un certo sviluppo economico ante-unità d’italia (scritto volutamente in minuscolo).

 

Ma subito dopo Trivigno e scendendo verso la valle del Basento fino ad arrivare a Metaponto e poi a Taranto, nuovamente la lingua parlata era quella Napoletana! Quindi, dopo una breve parentesi ritorna l’unità linguistica e rimane tale fino al mar Jonio.

Questo deve farci intendere che non abbiamo bisogno di inventarci storie o leggende come usano fare i “tizi in camicia verde” oltrepò, noi siamo un popolo unito culturalmente da 700 anni!

Questa unità linguistica sopravvisse fino al 1950 quando l’introduzione della tv come “scuola” di massa ha fatto in modo che si diffondesse la lingua italiana al popolo.

 

 

Fonte: visto su BRIGANTI.it del 10 gennaio 2015

Link: http://briganti.info/nel-1924-in-vaste-zone-dellex-regno-duosiciliano-la-lingua-parlata-era-ancora-il-napoletano/

 


Buon Compleanno a te Marina, unica e speciale! E non temere gli anni che passano, rimani sempre giovane e bella, perché splendida è la tua anima!

L’ULTIMO DISCORSO DI ENRICO MATTEI: LA RICCHEZZA DEVE RESTARE IN SICILIA

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Enrico Mattei saltò in aria con il suo aereo il 27 ottobre del 1962, poche ore prima tenne un discorso memorabile a Gagliano Castelferrato (Enna), dove disse ai siciliani che il petrolio trovato nelle loro terre gli avrebbe portato benessere e avrebbe fatto in modo che la gente non emigrasse più e che, anzi, sarebbero ritornati gli emigrati.
 Infine si scagliò contro le multinazionali estere.

Di seguito vi riportiamo il discorso integrale con le parti evidenziate in cui parla del risveglio della Sicilia, forse fu questa la causa del suo omicidio?? L’ Italia Unita S.P.A. voleva tenere la Sicilia sempre come colonia interna?

I fatti giudiziari nati successivamente alla sua morte, portano purtroppo a pensare proprio questo…

 

“Prima di tutto desidero ringraziarvi di questa calda accoglienza che abbiamo ricevuto, qui, nel vostro paese. Oggi si affacciano alla mia memoria quegli anni che possiamo considerare lontani, dell’immediato dopoguerra, quando nessuno credeva alle reali possibilità dei nostro sottosuolo. Noi cominciammo una lotta dura, fra l’ostilità di coloro che non credevano a queste possibilità dei nostro paese, poi giungemmo alle scoperte della valle Padana che hanno rivoluzionato – come diceva poco prima il vostro onorevole Lo Giudice – la valle Padana e l’alta Italia. Quando chiedemmo di venire in Sicilia, trovammo che non eravamo di moda: allora erano in momento favorevole tutte le compagnie petrolifere straniere. Io debbo ringraziare la Regione siciliana di averci dato tutto quello che in pratica era rimasto, che gli altri non avevano scelto. Volevamo dimostrare anche alla Sicilia quello che potevano veramente fare gli italiani, gli italiani che si rendevano conto di quello che poteva significare questo tipo di progresso per la Sicilia.

 

Vennero i nostri primi geologi e gli scienziati, le prime squadre cominciarono il lavoro, svolto tra l’incredulità ed una certa ostilità. Arrivammo al rinvenimento del petrolio di Gela: a Gela oggi sta sorgendo un enorme complesso. Il vostro presidente, ieri, ci ha onorato di una visita e si è reso conto di che cosa si può fare in Sicilia. Il nostro ringraziamento va a tutti i nostri scienziati, ai nostri operai, ai nostri tecnici, a tutti coloro che giornalmente si impegnano nella dura fatica di trovare nelle viscere della vostra terra le ricchezze che vi sono nascoste. Avete visto con quanto impegno ci siamo messi in questa impresa: momenti di attesa, di speranza, di lavoro duro, di polemiche ideologiche contro di noi. Siamo arrivati a scoprire il metano anche a Gagliano: di questo ringraziamo il Signore Iddio, perché gli uomini possono stabilire con i loro mezzi se ci sono le condizioni favorevoli, ma è solo l’aiuto divino che può far arrivare gli uomini a dei successi. Le risorse e le riserve che sono state messe alla luce sono importanti, però probabilmente lo saranno ancora di più perché prosegue il lavoro di ricerca dei nostri tecnici. Noi siamo convinti che la vostra terra conserva ancora beni nascosti, perciò noi siamo impegnati con tutti i nostri uomini. Dovete ringraziare veramente il vostro presidente per quello che ha fatto per questo paese, per questa provincia povera.

Amici miei, anche io vengo da una provincia povera, da un paese povero come il vostro. Pure oggi c’è qua della nostra gente – io sono marchigiano, quelli sono paesi poverissimi – che viene a lavorare in Sicilia: perché prima di qui, in alta Italia e nel centro Italia, abbiamo fatto ricerche minerarie come queste, e quindi abbiamo creato le scuole, abbiamo creato gli uomini che operano in Sicilia e pensiamo di mandare anche siciliani in altre zone d’Italia. Poi, con le riserve che sono state accertate, una grande ricchezza è a disposizione della Sicilia.

Amici miei, noi non vi porteremo via niente. Tutto quello che è stato trovato -che abbiamo trovato – è della Sicilia, e il nostro sforzo è stato fatto per la Sicilia e per voi. Giustamente il vostro presidente diceva che noi non abbiamo nessun profitto personale. E’ vero: noi lavoriamo per convinzione. Con la convinzione che il nostro paese, e la Sicilia, e la vostra provincia possano andare verso un maggior benessere; che ci possa essere lavoro per tutti; e si possa andare verso una maggiore dignità personale e una maggiore libertà.

Amici miei, io vi dico solo questo: noi ci sentiamo impegnati con voi per quanto c’è da fare in questa terra. Noi non portiamo via il metano; il metano rimane in Sicilia, rimane per le industrie, per tutte le iniziative, per tutto quello che la Sicilia dovrà esprimere”.

 

Dalla piazza una voce interrompe: “Così si può levare questa miseria di Gagliano”.

Rivolgendosi all’anonimo, Mattei dice:“Amico mio, io non so come lei si chiami, ma anch’io ero un povero come lei; e anch’io ho dovuto emigrare perché il mio paese non mi dava lavoro; sono andato al Nord, e adesso dal Nord stiamo tornando al Sud con tutta l’esperienza acquistata. Noi ci impegniamo con le nostre forze, con le nostre conoscenze, con i nostri uomini, a dare tutto il nostro contributo necessario per lo sviluppo e l’industrializzazione della Sicilia e della vostra provincia. Io vi devo chiedere – come ho già chiesto al sindaco – scusa di non essere venuto prima. Ma sono gli impegni che abbiamo in tutto il mondo: ci sono 50 mila persone che oggi operano in questo gruppo; e su 50 mila persone ci sono mille e seicento ingegneri, 3 mila periti industriali e geometri, 2 mila dottori in chimica e in economia, 300 geologi, decine di migliaia di specialisti che si muovono in tutto il mondo. E tutto questo porta lavoro, porta responsabilità, porta un grande impegno; ma io conoscevo esattamente la situazione di Gagliano, delle sue riserve, di questo lavoro, delle possibilità che esistono per l’avvenire. Le abbiamo seguite giorno per giorno, con ansia, e qualche volta, molte volte, ne eravamo felici. Ora su questo si deve innestare un successivo lavoro, si devono innestare industrie che dovranno portare in questa zona benessere e ricchezza. Noi ci impegniamo insieme con voi, con tutti. Potete contare sulla nostra opera, come avete potuto contare su tutto quanto abbiamo compiuto fino ad oggi senza che ci fosse stato richiesto. L’abbiamo compiuto perché sapevamo – se arrivava il successo – di poter raggiungere dei risultati che cambiano la fisionomia della vostra regione. E noi andremo avanti in questo, seguiteremo il nostro lavoro di ricerca perché più risorse vengano reperite, queste risorse sono tesori. I tesori non sono i quintali di monete d’oro, ma le risorse che possono essere messe a disposizione dei lavoro umano.

Amici, desidero ancora ringraziarvi per queste vostre accoglienze che io sapevo mi avreste fatto, ma non così calorose come invece ho trovato, perché so che vi rendete conto dello sforzo che abbiamo compiuto e di ciò che vi portiamo, e quindi fra di noi non poteva esserci che simpatia e fiducia. Sapevo che un giorno sarei venuto in mezzo a voi, che voi mi avreste guardato con simpatia e con affetto. Abbiamo discusso, con i vostri rappresentanti, dei vostri problemi, molti dei quali non sono che problemini. Non assorbiremo 70 persone, ma tutti coloro che potrete darmi, tutti, e sarà necessario che tornino molti di quelli che sono andati all’estero perché a Gagliano avremo bisogno anche di loro. Noi non vi porremo dei limiti. Noi vogliamo solo stabilire una collaborazione che duri sempre. C’è una scuola di qualificazione da fare? Mi darete il vostro contributo, indicandomi i corsi che dovranno essere istituiti. Sono piccoli problemi: l’importante è questa enorme massa di risorse che da oggi è messa a disposizione della Sicilia, e sulla quale si potrà e si dovrà costruire, se ci sarà l’impegno di tutti”.

 

 

(ENRICO MATTEI, discorso ai cittadini di Gagliano Castelferrato (En), 27 ottobre 1962, due ore prima di morire)

 

 

Fonte: da BRIGANTI.it del 2 ottobre 2012

Link: http://briganti.info/enrico-mattei-la-ricchezza-deve-restare-in-sicilia-i-siciliani-non-dovranno-piu-emigrare/

 

LA SICILIA DEVE DIVENTARE UNA NAZIONE FEDERATA

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Gaetano Armao

 

 

La proposta rivoluzionaria del professore Gaetano Armao

 

Il docente di diritto amministrativo, ex assessore regionale al Bilancio e leader del comitato promotore di “Sicilia Nazione”, ha illustrato in una conferenza stampa i contenuti di una proposta che farà discutere a livello nazionale ed europeo sul ruolo politico e strategico della Sicilia che gode di uno Statuto autonomistico che dovrebbe garantire determinate specialità e che invece per colpa di una classe politica inadeguata non è riuscita soprattutto negli ultimi anni a rintuzzare gli “attacchi” del Governo centrale, tendente a ridurre l’Autonomia.

 

 

La Sicilia è una Nazione. Una Nazione con un popolo, un territorio, una lingua, una cultura, un’identità e antiche tradizioni. Una Nazione senza un proprio Stato che vive oggi una crisi drammatica e che da oltre 150 anni viene ripetutamente depredata delle proprie risorse e costretta a un pesante divario di opportunità e di sviluppo rispetto alle aree del Nord-Italia. Una Nazione dentro lo Stato italiano che solo formalmente ne ha riconosciuto le peculiarità attraverso lo Statuto dell’Autonomia, ma che, in effetti, ne ha sempre disconosciuto i contenuti.

 

La Sicilia non ha ottenuto alcun reale vantaggio nei 150 anni di unità con l’Italia. Fin dai primi giorni dell’annessione, la Sicilia ha ricevuto un trattamento da colonia. La repressione e l’occupazione militare dei primi anni e la decisione di “normalizzare” il popolo siciliano procedendo a un’unificazione forzata hanno determinato un rapporto di subalternità che non è mai più stato superato. La spoliazione delle risorse ha poi condannato la Sicilia a una situazione di perenne arretratezza rispetto al Centro-Nord. E’ da quel periodo che si è creato quel profondo divario economico, sociale e infrastrutturale dell’isola che cresce oggi in termini esponenziali.

 

Quello che è più grave è che nel secolo successivo la questione siciliana non è stata neppure affrontata e il gap si è sempre più allargato. La Sicilia ha così pagato un prezzo altissimo sull’altare della cosiddetta unità nazionale, con un pesante drenaggio di risorse umane, finanziarie e produttive.

 

Anche l’Italia repubblicana porta responsabilità gravissime con la decisione di mantenere il divario e lo spostamento di risorse dalla Sicilia in cambio della nascita di un’economia di assistenza e di elemosina, con l’incentivazione di forme di precariato assistito divenuto adesso insostenibile sul piano economico e con l’insediamento di alcune grandi industrie, vere e proprie cattedrali nel deserto, gravemente inquinanti che hanno devastato larga parte del territorio.

 

La Sicilia non è più nei fatti una Regione a Statuto speciale. Lo Statuto è stato il frutto delle lotte autonomiste e indipendentiste e del ruolo di alcuni dirigenti politici siciliani che furono capaci di determinare le scelte dello Stato; non fu quindi una concessione. E’ stato una conquista del popolo siciliano basata su un accordo tra la Sicilia e lo Stato italiano che negoziava autonomia speciale e autogoverno in cambio della rinuncia alle richiesta d’indipendenza. Va da sé che ogni riduzione delle competenze statutarie, rappresenta una violazione della natura pattizia di quell’accordo e legittima la volontà di autodeterminazione dei siciliani.

 

Lo Stato italiano ha sempre cercato di ridurre la portata dello Statuto, com’è dimostrato dall’abolizione dell’Alta Corte. In questi ultimi anni poi gli attacchi all’Autonomia hanno fortemente ridotto i poteri di autogoverno della Sicilia e si spingono, oggi, sino alla minaccia di soppressione della specialità, purtroppo condivisa anche da alcuni ascari politici siciliani che, dopo averla utilizzata in termini clientelari e di privilegio, cercano di scaricare le proprie responsabilità attribuendone le colpe all’Autonomia.

 

La Sicilia possiede le risorse e le energie umane e materiali per vivere in autonomia. Ciò non si è verificato soltanto perché è stata continuamente depredata delle sue ricchezze, determinandone persino la sudditanza psicologica. Gli stessi siciliani si sono spesso fatti convincere dalle menzogne propinate da quei politici italiani che sostengono che lo Stato versa alla Sicilia più di quanto riceve.

 

Gravi sono poi le responsabilità della classe politica siciliana che è rimasta in gran parte subordinata ai partiti italiani e ne ha condiviso vizi e atteggiamenti da casta. La Sicilia doveva diventare per loro, com’è purtroppo progressivamente avvenuto, un bacino elettorale a basso costo, dipendente dalla politica e da intermediari sindacali e pseudo-imprenditoriali.

 

La Sicilia deve prendere in mano il proprio destino. La disoccupazione a livelli ormai altissimi, quella giovanile in particolare, l’emigrazione che riprende, le piccole e medie imprese schiacciate da una tassazione altissima e da crediti non compensati nei confronti dello Stato, un sistema produttivo pesantemente penalizzato dal profondo gap infrastrutturale, le grandi multinazionali che inquinano e pagano le tasse altrove, le immense risorse ambientali e artistiche assolutamente non valorizzate, la mancata previsione di una fiscalità di vantaggio che possa rendere conveniente investire in Sicilia e il rifiuto di qualsiasi altra forma di riequilibrio territoriale, lo storno verso il Centro–Nord di risorse economiche destinate dalle norme europee alla nostra Isola; sono la prova che lo Stato italiano ha deciso ancora una volta che la Sicilia è solo territorio di conquista e di saccheggio.

 

Le ultime umilianti vicende, che vedono il Governo nazionale chiedere in modo ricattatorio alla Sicilia di rinunciare a circa quattro miliardi di crediti in cambio di appena 500 milioni di liquidità e una politica siciliana imbelle che accetta il ricatto e che è incapace di reagire alla successiva ulteriore sottrazione di un miliardo di investimenti, testimoniano della necessità di cambiare rapidamente rotta. Tocca quindi ai siciliani porre fine alle umiliazioni e decidere di rompere la spirale di rassegnazione e costruire un progetto capace di andare oltre l’autonomia speciale.

 

La Sicilia ha interesse all’autodeterminazione. Impegnarsi per garantire concrete forme di autogoverno alla Nazione Siciliana non è più soltanto una questione identitaria o ideologica. Gli interessi economici e di sviluppo dell’isola hanno bisogno dell’autodeterminazione.

 

L’applicazione dei parametri europei di rigore economico, dietro i quali spesso si maschera la volontà dello Stato italiano di non riconoscere alla Sicilia la piena autonomia finanziaria e una fiscalità di vantaggio, impedisce di creare per un’unica regione un sistema differenziato a livello economico, fiscale e legislativo tale da consentirgli di ridurre il divario con altre parti dello Stato e di rendere competitivi cittadini e imprese.

 

Vincoli regolamentari e di finanza pubblica non consentono inoltre, almeno per i prossimi trent’anni, di stanziare l’enorme mole d’investimenti finanziari e infrastrutturali necessari per determinare minime condizioni di riequilibrio. Solo una nazione sovrana può essere in grado di utilizzare leva fiscale e meccanismi legislativi per creare sviluppo senza entrare in conflitto con gli standard europei, come avviene già per altre Isole nel mediterraneo che hanno una loro dimensione statale. Appare quindi evidente che l’assenza di autodeterminazione e di autogoverno rappresenta un danno per la Sicilia e la conduce alla desertificazione e alla povertà.

 

La Sicilia deve diventare una Nazione federata o uno Stato indipendente. L’Autonomia speciale che ha rappresentato un accordo fortemente innovativo e che poteva trasformarsi, se attuato, in una leva per lo sviluppo è stata indebolita dalla pervicace volontà dei governanti italiani di proseguire sulla strada della subalternità della Sicilia.

 

Una straordinaria opportunità si è trasformata, a causa dell’opportunismo di pochi, in un feticcio dietro il quale alcuni tentano di coprire ridicoli privilegi e un distorto uso clientelare delle istituzioni autonomistiche. E’ necessario a questo punto andare oltre l’Autonomia speciale e lo Statuto regionale, recuperandone lo spirito originario e traendo le conseguenze dalla loro mancata attuazione.

 

E questa prospettiva è coerente peraltro con la dimensione europea dell’insularità. Non vi è in Europa una grande isola, o un arcipelago, che non sia uno Stato o una Regione con forti elementi di autonomia politica, finanziaria e fiscale.

 

Occorre una nuova fase con obiettivi definiti e nettamente innovativi. Esiste una sola alternativa all’indipendenza della Nazione siciliana e questa stessa alternativa ha tempi molto ristretti.

 

Si tratta di stabilire un nuovo accordo pattizio tra la Sicilia, non più regione, e lo Stato italiano: un patto tra due Nazioni a pari titolo che si federano fra loro attribuendo a ognuna di esse pieni poteri di autogoverno e attribuendo alla federazione esclusivamente i poteri riguardanti Esteri, Difesa e poche altre competenze definite con assoluta precisione. In alternativa a questo nuovo accordo pattizio non resta che la richiesta di una piena indipendenza da negoziare in tempi relativamente brevi e che deve essere decisa dai siciliani attraverso un referendum popolare.

 

Si decida serenamente con le regole della democrazia – come già sperimentato da altri popoli europei. Siano i siciliani a scegliere se il loro destino debba continuare a essere affidato all’Italia o se debba essere invece ripreso nelle loro mani.

 

La Sicilia può diventare il cuore del Mediterraneo e di una diversa Europa. La posizione strategica della Sicilia al centro del Mediterraneo e crocevia naturale tra l’Europa, l’Africa e l’Asia ci consegna responsabilità e opportunità straordinarie. Una Nazione di pace, d’incontro, di scambi culturali ed economici. Una Nazione che può diventare piattaforma logistica del Mediterraneo e al contempo ambasciatrice di una diversa Europa dei popoli.

 

Un’Europa dei diritti e non delle burocrazie, tantomeno finanziarie, un’Europa che sappia contrastare mafie e corruzioni, un’Europa dei cittadini europei e non delle banche. Un’Europa che torni alle ispirazioni e alle ambizioni di Sturzo e Spinelli, che abbia il coraggio di eliminare vincoli rigidi e patti di stabilità e che consenta la circolazione di strumenti finanziari complementari per consentire sviluppo attraverso forti iniezioni di liquidità.

 

Un’Europa che, ritrovando la propria dimensione mediterranea, difenda l’agricoltura isolana, stracciando ogni accordo a scapito dei nostri prodotti. Sono queste le opportunità di una Nazione siciliana, federata o indipendente, in un’Europa confederale e democratica, ricondotta ai valori di solidarietà che ne ispirarono la fondazione.

 

La Sicilia ha bisogno di un Movimento Nazionale Siciliano. Vogliamo costruire un Movimento Nazionale che unisca i siciliani nell’impegno per forme più avanzate di autogoverno. Un movimento che metta insieme cittadini dei più diversi orientamenti politici e ideali, con l’obiettivo di restituire alla nostra terra l’orgoglio e la responsabilità di essere Nazione e le opportunità garantite dalla sua storia, dalle sue tradizioni culturali, dalla sua posizione geografica e dalle sue risorse.

 

Un movimento di indipendenza e riscatto nazionale che abbia al centro del suo programma la Sicilia, il suo sviluppo e il benessere dei siciliani. Un movimento che abbia un’unica pregiudiziale indiscutibile: la lotta alla mafia che ha sfruttato, traendone enormi profitti illeciti, il peso del sottosviluppo e il bisogno di lavoro, schiacciando le speranze dei siciliani onesti. Non può e non dev’esserci spazio alcuno per la mafia, nemica della Sicilia, infamia per la nostra storia e macchia sul nostro onore. Tutti devono sapere che la lotta per l’autodeterminazione della Nazione Siciliana è alternativa alla criminalità mafiosa.

 

Il nuovo movimento deve nascere in un tempo breve e deve coinvolgere la maggioranza dei cittadini siciliani. Deve essere profondamente diverso dai partiti italiani e basato su criteri amplissimi di democrazia diretta. E’ con questo spirito e con l’obiettivo di costruire un movimento che rappresenti la maggior parte del popolo siciliano che rivolgiamo un appello a tutte le energie, le passioni e le culture della nostra Terra. La nostra storia e il futuro dei nostri figli ci chiedono di sentirci cittadini della Nazione Siciliana. Per questo rivolgiamo il nostro appello a tutti i siciliani liberi.

 

 

Fonte: SI24.it del 16 gennaio 2015

Link: http://www.si24.it/2015/01/16/la-sicilia-deve-diventare-una-nazione-federata-la-proposta-rivoluzionaria-del-professore-armao/77236/

 

 

 

ERA TUTTO PREVISTO: FAREMO ARRIVARE IN MASSA IMMIGRATI, CI SERVIRANNO PER RILANCIARE LOTTA DI CLASSE.

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Valter Veltroni e Achille Occhetto 

 

 

ALLE ORIGINI DI ‘MARE NOSTRUM’

 

C’è una data, che tutti coloro che andranno a votare contro se stessi, cioè per i partiti che hanno favorito l’invasione extracomunitaria, in particolare coloro che in buona fede votano per l’ex PCI, il cosiddetto Partito Democratico.

 

Questa data è il 18 settembre 1988. Perché ? Che accadde ? Dove ?

 

Il luogo è Campi Bisenzio, un comune confinante con Firenze, l’evento è il Festival Nazionale de “L’Unità” , un Festival importante, ove si presentava alle “masse” il nuovo segretario nazionale Achille Occhetto.

Era un Festival per qualche verso diverso a tutti gli altri, erano scomparsi i gazebo dei paesi dell’Est, al loro posto c’erano quelli di varie industrie, anche multinazionali…

Mi colpì la cucina multietinica – anche questa era una novità – e uno sparuto gruppetto di anziani, meno di dieci, che ascoltavano l’oracolo di un alto esponente del partito, un parlamentare presente anche in questa legislatura, che avevo conosciuto da ragazzo nei primi anni sessanta.

Mi avvicinai ed ascoltai : “Compagni, vi vedo preoccupati, ma non ne capisco la ragione… il Partito si è mosso. Sì all’Est siamo in crisi e può anche darsi che salti tutto per aria… Ma da noi non succederà niente. Per certi versi anzi è meglio… non ci potranno più accusare di essere i servi di MoscaDal prossimo anno faremo arrivare in massa gli extracomunitari, ci serviranno per rilanciare la lotta di classe, disarticolare l’Occidente e la Chiesa Cattolica.”

 

Sbalordito ricordai subito la prosa profetica del mio Amico don Lorenzo Milani che sul comunismo, il 31 luglio 1966, ebbe a dirmi:

Il comunismo è la mediazione e l’organizzazione politica di ogni male, al fine di consentire, ad una classe dirigente parassitaria e brutale, la gestione di ogni forma di potere sulle spalle degli ultimi”.

Credo che si possa affermare, senza ombra di dubbio, che il criminale cinismo dell’esponente comunista toscano, è perfettamente coerente con la prosa, lucidissima, del Profeta di Barbiana.

 

Il fatto, sul piano personale, mi sconvolse a tal punto dal trasformare la pacifica organizzazione del Movimento Solidale, che incarnava il Decalogo di Barbiana, nel combattente Movimento Autonomista Toscano, perché ero certo, per lunga esperienza e per l’autorevolezza dell’esponente comunista, che si trattava di una operazione gravissima che si sarebbe risolta in una aggressione a danno dei nostri Ultimi – giovani, anziani, ammalati, senza casa, disoccupati – e della nostra cultura ed identità.

 

Fu seguita da allora, con estrema attenzione, la strategia comunista. Poco dopo il Festival de “L’Unità” inizio l’invasione clandestina cinese di San Donnino, non a caso frazione di Campi Bisenzio. I cinesi, raccontavano gli abitanti, arrivavano di notte ed andavano ad affollare capannoni obsoleti , si venne poi a conoscenza che i primi capannoni erano di proprietà di imprenditori falliti o semifalliti già demo “cristiani”.

I vigili urbani, capaci di censurare un tetto alzato di dieci centimetri, erano scomparsi, scomparsi anche i carabinieri, la guardia di finanza, la prefettura, la questura … Tanto che, un po’fessi, ci domandavamo: Chi gli ha dato l’ordine di non vedere ?

Vi fu una reazione degli autoctoni che si costituirono in Comitato e stamparono una cartolina, nel davanti si vede il disegno della chiesa parrocchiale, mentre il cartello di San Donnino, viene coperto con la scritta “San Pechino”. Nel retro c’è la scritta : “Il paese della vergogna chiede aiuto !!”, c’è sotto un rigo per la firma e l’indirizzo del Presidente della Repubblica alla quale ingenuamente, molto ingenuamente… la povera gente si rivolgeva…

 

 

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Occhetto con Napolitano e D’Alema.

 

Contemporaneamente alla prima invasione cinese, apparse quella senegalese, sembra che questa fosse sponsorizzata da Bettino Craxi, amico del loro corrottissimo governo, la scusa di questa invasione era “l’impoverimento” del Senegal, ma un grande sacerdote e missionario Padre Piero Gheddo, dimostra in un saggio l’oggettiva falsità della “scusa” e contesta anche la tesi dello sfruttamento unilaterale dell’Occidente.

E’ un testo su cui, affrontando la questione extracomunitaria, occorre assolutamente riflettere:  “… Si parla di “popoli impoveriti”. Ma dove e come e da chi ? Chi ha impoverito il Sudan che combatte una guerra civile da 50 anni ? Chi ha impoverito Etiopia, Eritrea, Somalia, Congo, Algeria, Guinea-Bissau, Myanmar, Corea del Nord, Tanzania, Haiti, Ruanda, Burundi, Madagascar, Mozambico, Egitto, Repubblica centro-africana, Uganda e via dicendo ? Il termine stesso di “paesi impoveriti” è contrario alla verità storica, illude e deresponsabilizza i poveri.

 

Il grande missionario comboniano mons. Enrico Bartolucci, vescovo di Esmeraldas (Equador), nel 1989 mi portava a visitare l’ospedale moderno costruito e donato dalla Comunità Europea e da lui inaugurato pochi anni prima: era quasi distrutto dall’incuria e dai furti, ascensori fermi, porte che non chiudevano, sporcizia ovunque, materassi e lenzuola rubati, ecc. E diceva: “Affermare che le cause del sottosviluppo sono solo e sempre esterne, imposte dall’esterno, a me pare diseducativo. Si parla molto anche ad Esmeraldas, di multinazionali, di imperialismo americano, di sfruttamento economico delle ricchezze di questa regione da parte di compagnie. Tutto vero, ma deresponsabilizzante. La gente comune pensa che non c’è niente da fare, tanto gli americani e il capitalismo internazionale sono più forti di noi. Adesso poi, ogni discorso sui mali di questo paese finisce inevitabilmente nel parlare del debito estero, secondo un cliché marxisteggiante comune anche nella stampa italiana”.

 

Ovviamente, per fare tutto questo, avevano bisogno dell’utile idiota, l’hanno trovato.

 

 

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Fonte: da   VOXNEWS del 4 dicembre 2013

Link: http://voxnews.info/2013/12/04/era-tutto-previsto-faremo-arrivare-in-massa-gli-extracomunitari-ci-serviranno-per-rilanciare-la-lotta-di-classe/

 

E’ NATA PRIMA LA MAFIA O L’UNITÀ D’ITALIA

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Teano: Garibaldi incontra Vittorio Emanuele II

 

 

di Valerio Rizzo

 

Prima dell’Unità d’Italia esisteva la Mafia?

Saviano, durante la trasmissione “Vieni via con me” andata in onda su Rai 3 lo scorso anno, ha narrato la leggenda dei tre cavalieri: Ossso, Mastrosso e Carcagnosso, ma questa è appunto una leggenda!

 

Partiamo dalle parole del giudice Rocco Chinnici che, negli anni ’80, durante un’ intervista affermò:

 

prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente, premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione non era mai esistita, in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”.

 

Parole, queste, pronunciate da una persona che aveva studiato il fenomeno mafioso e che la sapeva lunga sull’argomento, molto più di tanti storici che se ne sono occupati.

Ma anche parole pesanti, difficilmente comprensibili per i ben pensanti.

 

Facciamo adesso un passo indietro di qualche secolo, e precisamente al tempo dei Promessi Sposi.

 

Manzoni nel suo romanzo descrive i personaggi di Don Rodrigo, i Bravi: il Griso e il Nibbio, il conte Attilio e soprattutto l’Innominato, storicamente identificabile in Francesco Bernardino Visconti, ricco feudatario e capo di una squadra di bravacci che commetteva ogni sorta di delitti. Ma i Promessi Sposi, prima ancora di essere la storia di due giovani amanti, è un romanzo storico e come tale ritrae la società del tempo, nella fattispecie quella milanese del 1600, i cui personaggi potrebbero tranquillamente essere accomunati agli attuali boss, picciotti o al potente colluso che per ottenere favori utilizza qualsiasi mezzo.

 

Tornando ai fatti risorgimentali ormai è nota l’alleanza tra Garibaldi e i picciotti siciliani, l’eccidio di Bronte ne è l’esempio più lampante, e lo stesso “eroe dei due mondi” scrive nel suo diario:

E Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta, 11 maggio 1860“, ma anche la decisione dei piemontesi di “istituzionalizzare” la Camorra a Napoli dandogli la gestione dell’ordine pubblico.

 

L’artefice di tale scelleratezza fu il Prefetto Liborio Romano che scrisse a Salvatore de Crescenzo, esponente della camorra:

 

redimersi per diventare guardia cittadina, con quanti compagni avesse voluto, col fine di assicurare l’ordine. In cambio, i camorristi irregimentati avrebbero goduto di amnistia incondizionata e stipendio governativo”.

 

Famose poi furono le parole del deputato repubblicano, Napoleone Colajanni, che nel 1900 affermò al Parlamento:

 

Per combattere e distruggere la mafia, è necessario che il Governo Italiano cessi di essere il re della mafia”.

 

E il dubbio sorge anche se si cita un altro protagonista indiscusso nella formazione sia dell’Unità che della Mafia: la Massoneria.

 

Molti fonti storiche ormai sono concordi col fatto che l’impresa dei “mille” fu decisa a tavolino dalla massoneria, escludendo la partecipazione del popolo. Il film “Noi credevamo” di Mario Martone mette proprio in evidenza tale aspetto, mentre, è accertato da sempre che Mafia e massoneria rappresentano quasi la stessa cosa.

 

Dunque il dubbio si infittisce e le domande si moltiplicano alquanto.

 

Per onestà intellettuale non sarebbe corretto far partire la storia della criminalità organizzata dall’Unità d’Italia, in quanto già esistevano germi di prepotenze e piccole organizzazioni di derivazione feudale.

 

Forse ciò che non è accettabile e che la storiografia sta facendo venire a galla è il fatto che tali germi siano stati innaffiati dal dopo-Unità, tanto da far nascere l’albero chiamato Mafia.

 

Se gli statisti di allora non avessero fatto questa scelta immonda, forse la storia del nostro Paese sarebbe stata molto diversa.

 

 

Fonte: srs di Valerio Rizzo, da BRIGANTI.it del 3 maggio 2011

Link: http://briganti.info/91/

 

 

 

150 ANNI FA ENTRAVA GARIBALDI A NAPOLI, FINIVA IL REGNO DELLE DUE SICILIE E LA “PIEDIGROTTA”

  

 

di Angelo Forgione

 

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(Wenzel Franz) Garibaldi entra a Napoli, finisce il Regno delle Due Sicilie

 

 

7 Settembre 1860: la “ Piedigrotta”, anche festa nazionale delle Due Sicilie, è in pieno svolgimento quando, al culmine della risalita della penisola da parte dei “mille garibaldini”, Re Francesco II di Borbone lascia Napoli per evitare sofferenze al suo popolo. Nello stesso giorno, mentre il Re delle Due Sicilie è in navigazione verso Gaeta, laddove organizzerà l’ultima difesa del Regno, entra a Napoli Garibaldi che si reca a portare omaggio alla Madonna per simpatizzare coi napoletani. Quella data è da considerarsi a tutti gli effetti come l’inizio del potere camorristico in città.

 

Le sommosse in Sicilia e le pressioni di Inghilterra e Francia sotto la spinta delle massonerie avevano convinto Francesco II a ripristinare la costituzione del 1848 e a promulgare un’amnistia che restituiva la libertà a un gran numero di camorristi. La camorra di allora non era quella di oggi, potente e ramificata, ma un’attività dedita ad affari di quartiere.
Francesco II nominò Ministro di Polizia Liborio Romano, un liberale pugliese, che subito dopo l’incarico contattò in segreto l’amnistiato capintesta della camorra Salvatore De Crescenzo, detto “Tore ‘e Criscienzo”, chiedendogli di radunare tutti i capi-quartiere della città affinché gli facessero visita. Si trattò di un’assemblea in cui si sancì il primo caso di connivenza tra Stato e malavita organizzata proprio sul nascere della nazione unita. Liborio Romano, corrispondente di Cavour, avrebbe favorito l’ingresso di Garibaldi per poi diventare Prefetto mentre il camorrista “Tore’e Criscienzo” sarebbe divenuto Questore a capo della guardia cittadina costituita per intero da malavitosi col compito di garantire l’ordine pubblico in una città in fermento.

 

I camorristi assoldati dalla nascente nazione si distinguevano da una coccarda tricolore appuntata sul cappello. Seguirono giorni di tumulti e assalti ai commissariati napoletani per distruggere gli archivi; coloro che si opponevano venivano considerati nemici della patria e ricevevano bastonate.

 

Il 7 Settembre 1860, dunque, Garibaldi entrò in Napoli a bordo del treno borbonico, sotto l’occhio attento delle guardie camorristiche. In testa al corteo che seguiva la carrozza del “dittatore delle Due Sicilie” figurava proprio il questore capintesta “Tore ‘e Criscienzo”. Via Marina, Maschio Angioino, Largo di Palazzo (Plebiscito) e breve discorso. Poi su per Via Toledo fino a Palazzo Doria D’Angri dal quale si affacciò e ne prese possesso come dimora. Il giorno seguente il Generale si recò a far visita alla Madonna di Piedigrotta attraversando in parata la Riviera di Chiaia. Per volontà divina, Garibaldi, il ministro “doppia faccia” Liborio Romano e tutti i camorristi di guardia furono accolti da un tremendo temporale che inzuppò il corteo alla volta del santuario.

 

Quella dell’anno seguente fu l’ultima Piedigrotta, organizzata dal luogotenente Generale Enrico Cialdini, uomo impegnato in quel periodo a massacrare migliaia di meridionali patrioti tacciati per questo col marchio di briganti. I Savoia, tra i tanti demeriti, ebbero anche quello di sospendere la festa nel 1862 dopo aver decretato nel Febbraio di quell’anno la soppressione di tutti i conventi e la confisca dei beni mobili e immobili della chiesa. Fu coinvolto ovviamente anche il santuario di Piedigrotta i cui canonici furono liquidati con un piccolo vitalizio.

 

Finiva così la Piedigrotta, finiva Napoli Capitale. Quella che riprenderà anni più tardi non sarà più la grande festa nazionale che i visitatori del “Gran Tour” si recavano un tempo a vivere di persona.

 

 

Fonte: visto su il Blog di ANGELO FORGIONE, del 7 settembre 2010

Link: https://angeloxg1.wordpress.com/2010/09/07/150-anni-fa-entrava-garibaldi-a-napoli-finiva-il-regno-delle-due-e-la-piedigrotta/

 

 

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